Le autobiografie sono materia sdrucciolevole. Il rischio è di scivolare nei territori dell’ordinarietà che, seppure trasfigurata, ordinaria rimane. “È stata la mano di Dio”, di Paolo Sorrentino, dal 15 dicembre anche su Netflix, è un sincero (e dolente) “diario di formazione” e una variopinta dichiarazione d’amore al cinema. È molto piaciuto alla giuria dell’ultimo Festival di Venezia, che gli ha assegnato il Gran Premio. Ma rimane a metà nel viaggio verso il cuore dello spettatore.
La vita è sogno, e se la vita è stracca e fiacca la si può ricreare sullo schermo, racconta la sequenza finale con Fabietto/Sorrentino (il ricciolino promettente Filippo Scotti) addormentato sul treno per Roma, mentre risuona “Napulè” sui titoli di coda. Ma paradossalmente questo inno al cinema non riesce a farti innamorare del cinema. Eppure Sorrentino è sicuro dei propri mezzi al punto da esibirsi anche in un felliniano omaggio a Fellini: un provino napoletano popolato di creature mostruose ed eccessive.
Per il resto, si tratta dell’autoritratto di una famiglia in un interno borghese e vari esterni marinari. Si sorride e non si ride, si intristisce il ciglio ma non si piange. Il che, per essere un inno alla napoletanità, è un bel paradosso. Eppure il regista ha dichiarato di aver imparato una lezione dal regista Capuano, nell’ultimo incontro del film: “La ricerca di una forma costruttiva di conflitto. La pacificazione nella vita è un traguardo meraviglioso, ma finisce per indebolire la creatività”.
Ecco, “La mano” pare più pacificata che conflittuale. All’autorevole Mereghetti però è piaciuto assai: “Lo stile di Sorrentino, pirotecnico, più rococò che barocco, in questo film lascia spazio a una ritrovata essenzialità espressiva, a una più efficace linearità narrativa”.
Lineare ma non vibrante. Alla carenza del plot Sorrentino rimedia col mito: Maradona, la divinità evocata dal titolo. Patrono e suscitatore di sogni, è il culto condiviso della città, protettore di orfani e vedove. Ma anche questo tema, evocato di lato, non diventa forza narrativa.
Ma Sorrentino ce l’ha fatta. Ha fatto il cinema. Ha preso quel treno per Roma nel giorno del primo scudetto del Napoli, 1987. E ha acquisito il diritto di raccontare Napoli, con le sue caricature di contrabbandieri dal cuore d’oro e di cugine sovrappeso. Momenti poetici e onirici (un sedicente San Gennaro, un lampadario favoloso e un monaciello misterioso, per esempio) non riscattano quel filo di noia. Perfino la morte simultanea dei genitori (tragedia vera della vita dell’adolescente Sorrentino) – interpretati dai bravi Toni Servillo e Teresa Saponangelo – non buca l’anima.
Come se Sorrentino si fosse troppo denapolitanizzato, interiorizzando il cinismo romano. “La mano di Dio” conferma il mestiere ma non la genialità espressa nel “Divo”. Insomma, incredibilmente, Giulio Andreotti batte Diego Armando Maradona 3 a 1.
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