Non insegniamo che sbocco del conflitto sia solo la guerra

Ci sono momenti storici nei quali si sente più forte l’urgenza di dare a ragazze e ragazzi criteri di lettura per comprendere le coordinate di quanto accade nel mondo contemporaneo

In cammino verso il primo gennaio 2025, Giornata mondiale della Pace, il “Gruppo Giustizia e Pace” della diocesi propone anche questa settimana riflessioni dedicate ai temi della pace, del disarmo, della giustizia e della salvaguardia del creato. Un contributo per alimentare il dialogo e l’impegno personale e comunitario verso la costruzione di un mondo più giusto, solidale e rispettoso del dono del creato.

Negli ultimi mille giorni le guerre in Ucraina e a Gaza hanno fatto ingresso anche nella scuola. Le immagini dei massacri e dei bombardamenti sulle città, le testimonianze e gli sguardi di coloro che vivono la quotidianità della guerra sono entrati nelle aule, sono stati oggetto di discussione, di approfondimento, di studio. A ben guardare, il “problema della guerra”, per usare un’espressione di Norberto Bobbio, non ha mai abbandonato la scuola; ma ci sono momenti storici nei quali si sente più forte l’urgenza di dare a ragazze e ragazzi criteri di lettura per comprendere le coordinate di quanto accade nel mondo contemporaneo. Ma devo dire che affrontare la questione della guerra come “problema umano” e non come un semplice racconto del susseguirsi di battaglie non è mai facile: non è raro ritrovarsi a fare i conti con lo scoraggiamento, l’indifferenza, la sfiducia, il cinismo di fronte alla possibilità di superare la logica della violenza. Le ragioni della sfiducia nella capacità umana di mettere al bando la guerra sono complesse ma, semplificando un po’, mi sembra che siano riconducibili a tre obiezioni di fondo: la guerra fa parte della natura umana, le istituzioni internazionali sono inefficaci, gli interessi economici e geopolitici calpestano sempre i diritti umani. Al fondo di queste obiezioni, estremamente diffuse anche fra studenti e studentesse, sta sempre una pretesa di realismo: nessuno dei miei giovani interlocutori ammette mai che esse poggino su una concezione pessimistica dell’umanità o che contengano una lettura molto parziale del fenomeno della guerra. In realtà si tratta di affermazioni dogmatiche, che costruiscono la realtà nel momento in cui pretendono di descriverla e che poggiano sull’idea che il conflitto, che fa parte della libertà umana, debba inevitabilmente sfociare nella guerra.

Sconfiggere questi pregiudizi negativi è uno dei compiti della scuola. Qui vedo almeno quattro piste di lavoro.

Primo, occorre evitare di leggere il passato e il presente unicamente come sequenza di conflitti, sforzandosi invece di raccontare i successi di coloro che hanno migliorato la storia umana. Questo richiede un grande sforzo da parte di chi insegna, poiché la storia del sangue risparmiato è molto meno studiata di quella del sangue versato. Ma da qui è necessario partire per riscrivere le coordinate della convivenza umana.

Secondo, è necessario aiutare ragazze e ragazzi a comprendere il destino delle vittime delle guerre. Questo mi sembra il compito più difficile, perché educare all’empatia con le vittime non è né facile, né istintivo. Occorre educare a scegliere da che parte stare e stare accanto a chi subisce la violenza della guerra può risultare persino inaccettabile agli occhi di alcuni.

Terzo, non si deve dimenticare di insegnare che i grandi cambiamenti positivi della storia sono avvenuti molto spesso grazie all’impegno di pochi e che i movimenti più rivoluzionari hanno origine dall’intuizione e dall’azione di piccolissimi gruppi. Qui è fondamentale recuperare un approccio narrativo, per aiutare ragazze e ragazzi a guardare con gli occhi dei grandi costruttori di pace i conflitti nei quali essi vivono o hanno vissuto. Ma ancora una volta c’è bisogno di un grande lavoro di ricerca da parte dei docenti, per recuperare quelle storie “minime” che stanno alla base delle grandi rivoluzioni nonviolente. A questo livello è fondamentale anche far comprendere – esempi alla mano! – come i risultati delle rivoluzioni nonviolente siano in generale molto più duraturi di quelli ottenuti facendo ricorso alla violenza e alla guerra.

Quarto, valorizzare il ruolo delle istituzioni internazionali e delle organizzazioni che hanno fra i loro scopi prioritari quello di promuovere il disarmo e la pace: i grandi trattati delle Nazioni Unite per il disarmo – da quelli contro le armi biologiche e chimiche a quelli contro le mine o le bombe a grappolo, fino a quello che nel 2017 ha messo al bando le armi nucleari – non vanno presentati come illusioni o chiacchiere moraleggianti, ma come il frutto del lavoro incessante di uomini e donne che hanno speso e spendono la loro vita per la costruzione di un mondo libero dal flagello della guerra. E anche qui vanno messi in luce i risultati ottenuti e non solo gli aspetti critici.

Difficile? Certo. Molto più semplice, anche per gli adulti, essere cinicamente convinti che gli sforzi per la pace non servono a nulla. Così abbiamo anche la scusa per non fare nulla. Ma non è questo il modo per trasformare la storia. E non è il compito della scuola, che deve educare ragazzi e ragazze proprio a trasformare la storia nella prospettiva del bene possibile. E a volte mi chiedo se questo non sia alla fine il suo compito più alto.

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