Forse si tratta semplicemente di restituire sovranità alle parole, come sosteneva don Lorenzo Milani. Qual è il significato di parole come educare e legalità nella nostra società e quale, invece, dovrebbe essere? L’ha sottolineato don Marcello Cozzi, fino ad un anno fa vicepresidente di “Libera contro le mafie”, dove tuttora è impegnato nell’incontro con pentiti di mafia, in una conferenza al PalaLevico giovedì sera, che aveva come tema proprio quello di “Educare alla legalità”.
In mattinata don Cozzi aveva incontrato i ragazzi del Marie Curie di Pergine e delle Barelli di Levico; durante la serata, invece, ha parlato ad un pubblico più variegato, dialogando con il giornalista Carmine Ragozzino. La giornata è stata organizzata dalla locale associazione Movin’Sounds, all’interno del Piano Giovani di Zona.
“La memoria – ha precisato don Cozzi – è importante, in Sicilia quanto in Trentino, in Campania quanto in Valle d’Aosta. Se vogliamo davvero capire che cosa sia il senso di libertà e democrazia in questo Paese, non possiamo non ricordare chi, purtroppo, nella lotta contro la mafia ci ha rimesso la vita”.
Don Cozzi ha raccontato del momento in cui il presidente di Libera don Luigi Ciotti, ad un anno dall’anniversario della strage di via d’Amelio nella quale Borsellino perse la vita, nel luglio del 1993, rimane colpito da una frase – “Perché non ricordano il nome di mio figlio?” – pronunciata dalla mamma di Antonio Montinaro, capo della scorta di Falcone ucciso nella strage di Capaci.
Oltre ai giudici Falcone e Borsellino, infatti, ci sono persone forse meno conosciute, ma che come loro in questa “guerra sporca” hanno perso la vita.
È una vicenda che ha il volto di Lia Pipitone, che abita a Palermo negli anni Settanta e s’interessa di politica e di lotta sindacale. Lia che ha un padre ingombrante, il mafioso Vincenzo Pipitone, che sarà, poi, il mandante del suo omicidio. È la storia di Rita Atria, sedicenne di Partanna, in provincia di Trapani, che ha denunciato la sua famiglia mafiosa, aiutata dal giudice Borsellino. Rita che, dopo la morte del giudice, si toglierà la vita.
Ma è anche il coraggio di Denise, la cui madre, Lea Garofalo, muore per mano del padre, il mafioso Carlo Cosco, dopo averlo denunciato. E sarà proprio Denise, in seguito, ad accusarlo in un’aula di tribunale.
Libera ha accolto questo richiamo – quello di farsi portavoce di una memoria necessaria, soprattutto per i giovani. Un’idea balza in testa a don Ciotti ed al magistrato Gian Carlo Caselli: portare la lotta contro la mafia da un piano repressivo e giudiziario ad un piano culturale ed educativo. E, per attuare il loro progetto, il passaggio fondamentale è quello di mettere in moto la società civile. Ecco quindi che, il 25 marzo del 1995, in Libera confluiscono circa 1600 associazioni, che hanno storie e percorsi diversi, ma che convergono e s’impegnano per un obiettivo comune: il sogno di vedere un Paese sempre più libero dal potere mafioso e dal malaffare di ogni tipo. Il desiderio di restituire alla parola legalità ed alla parola educazione la loro sovranità.
“Per noi oggi è un motivo di orgoglio vedere che la lotta alla mafia si fa anche a tavola”, ha proseguito don Cozzi. Nei terreni confiscati alle mafie, infatti, molti giovani hanno trovato, attraverso varie cooperative, la dignità del lavoro, senza essere costretti ad emigrare e senza dover ringraziare nessun “boss”. La legge Rognoni La Torre del 1996 (legge 109/96), infatti, prevede il riuso sociale dei beni confiscati.
“Con la raccolta di firme organizzata nella primavera del ’95, sostenevamo che fosse necessario non solo confiscare i beni ai mafiosi, ma che quegli stessi beni dovessero essere restituiti alla collettività, perché erano ciò che i mafiosi le avevano ingiustamente sottratto”, ha raccontato don Cozzi. Così è avvenuto, nonostante le difficoltà della riassegnazione; molto spesso, infatti, i beni confiscati alla mafia vengono vandalizzati dai loro “ex-proprietari”, e questo comporta costi enormi per le associazioni e le cooperative che devono riutilizzare il bene.
“Un’altra battaglia importante è stata quella che ha iniziato a fare in sordina il presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella”, ha ricordato don Cozzi. Di Bella si è infatti speso riguardo alla necessità che i figli di genitori finiti in carcere per 41 bis non vengano affidati a parenti, dal momento che la mafia, in alcune zone del nostro Paese, è una questione di sangue. Concretamente, ciò significa sottrarre alla mafia il controllo sull’educazione dei ragazzi.
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