Come già accaduto nella storia, il ricambio non è avvenuto nelle maniere canoniche che immaginavano i critici
Si dice che non c’è rosa senza spine. Nel caso di Renzi la rosa è l’indubbio favore che gli riserva gran parte della opinione pubblica e le spine sono la lotta sorda che gli fa una strana coalizione di forze che include avversari interni al PD, gruppi della vecchia egemonia intellettuale e, ma questo è scontato, l’opposizione politica.
E’ abbastanza curioso vedere quanto favore raccolga l’esperimento di Renzi, che gente comune e pezzi della classe dirigente non politica (per esempio settori importanti degli industriali) considerano al tempo stesso come l’avvento, finalmente, di uno che almeno ci prova, e l’ultima spiaggia per un paese che deve dar prova di saper cambiare. Non è che questo consenso sia cieco come tendono a far credere i suoi detrattori. Tutti sanno bene che Renzi ha varie debolezze, che le sue ricette sono non di rado costruite più attorno ad uno slogan che ad un ragionamento, ma sanno altrettanto bene che comunque muovono acque stagnanti e che già questo è un primo risultato salubre.
Gli avversari del cambiamento non hanno molte armi a parte il famoso detto che si attribuiva all’interloquire del campione toscano di ciclismo Bartali: “gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare”. Vediamo di esaminare qualcuna di queste obiezioni.
Partiamo dalla vicenda della riforma del senato, dove un politico a caccia di presenza pubblica (Vannino Chiti) si è buttato a difendere l’idea di un “senato elettivo” e dove un gruppo di intellettuali, un tempo autorevoli, ha lanciato il solito “al lupo, al lupo!” (l’autoritarismo). Se il problema fosse realmente quello di avere senatori con una “unzione” elettorale è difficile sostenere che presidenti di regione e sindaci non siano in tale posizione: sono tutti eletti sulla base di competizioni personali che comportano addirittura il ballottaggio se non raccolgono la maggioranza al primo turno. Se la si vuol mettere sul terreno della legittimazione del voto, questi membri del nuovo Senato faranno presto a rinfacciare agli eletti alla nuova Camera sulla base di liste bloccate di partito (e in parte frutto di premi di maggioranza) che loro rappresentano molto più direttamente e molto meglio la “volontà popolare”.
Si dice: ma il nuovo Senato ha pochi poteri. A parte il fatto che qui si può anche incidere con modifiche, i poteri di un corpo politico sono più quelli che esso si prende nella pratica che non quelli che gli vengono assegnati sulla carta. E siccome non è detto che la maggioranza politica e gli interessi della seconda Camera coincidano poi con quelli della prima potremmo vederne delle belle. Esaminare la vicenda del Bundesrat tedesco, richiamato spesso senza sapere di cosa si parla, per vedere come una dialettica simile può funzionare.
Veniamo al caso della abolizione delle provincie. Anche qui gran baccano perché in realtà rimangono le loro strutture burocratiche e si elimina solo la classe politica che le governa con un risparmio “limitato” a qualche centinaio di milioni. Le obiezioni banali sono due. La prima è che solo dei pazzi avrebbero creato una guerra civile mettendo in mezzo alla strada milioni di dipendenti in un momento di pesante disoccupazione come questo. Ci sarà tempo per riorganizzare in maniera non troppo traumatica l’elefantiasi di queste strutture, nel momento in cui verranno private di protezioni politiche (ammesso e non concesso che non intervengano a tutelarle coloro che li assorbono, comuni e regioni, che quanto a “politica” non sono secondi a nessuno). L’altra obiezione è che non si vede perché per gestire una burocrazia che non si può abolire sia necessaria caricarla del costo inutile di una ampia classe politica. Il risparmio sarà anche “solo” di qualche centinaio di milioni, ma non è buona regola buttare via soldi anche se non sono moltissimi.
Sono solo due esempi, ma il ragionamento si potrebbe estendere ad altri casi. Il fatto è che, come già accaduto nella storia, il ricambio non è avvenuto nelle maniere canoniche che immaginavano i critici nel tempo passato: prima di tutto al potere non sono andati loro, in secondo luogo non è arrivata la “repubblica dei filosofi”, ma solo una nuova classe politica coi pregi e i difetti di tutte le classi politiche che segnano rotture col passato. Gli intellettuali devono rassegnarsi: è la storia che va così. I politici che non si arrendono all’idea della fine della loro stagione anche e per la stessa ragione.
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