Ma i cani non sono persone

I lettura: Genesi 2,18-24;

II lettura: Ebrei 2,9-11;

Vangelo: Marco 10,2-16

Non può passare inosservato: la “popolazione” canina è in aumento. Cani di tutte le razze e di tutte le stazze. Io non ho niente contro questi animali; un cane da guardia, per esempio, ha comunque la sua utilità. La faccenda mi stupisce quando il cane diventa il surrogato di una persona. In fondo, le sue esigenze sono piuttosto semplici e, oltretutto, lo si può tenere a bacchetta. Le persone invece no. Penso che la cosa vada di pari passo con il fenomeno delle solitudini e non di rado con quel clima di individualismo così radicato e diffuso nell’attuale società.

Ne concludo che sì, saranno pur vecchie (o meglio: antiche) le parole bibliche della prima lettura – “l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, ma non trovò un aiuto che gli corrispondesse” – ma sono d’un realismo e d’un buon senso che nessuna epoca riesce a smentire. E Dio lo conferma con l’autorità della sua Parola: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli corrisponda”. Un gatto, un cane, per quanto affettuoso e fedele, non è una persona, non le “corrisponde” come dice la Bibbia; e se non le corrisponde, quella persona – anziché crescere – si attorciglia nella sua individualità: non matura, non si realizza. “Dall’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. È un dato di fatto in questa nostra epoca: l’uomo e la donna, se pure uniti in matrimonio, non hanno riguardo a separarsi allorché le cose non vanno per il verso giusto. Ma aldilà di questo aspetto problematico, resta il fatto che l’uomo e la donna comunque si cercano, hanno bisogno uno dell’altro: è come se portassero scritto nell’intimo che soltanto se sono in due ognuno può realizzare se stesso. Un uomo e una donna, mano nella mano o abbracciati (adulti o giovani, anziani o adolescenti che siano) vanno guardati con rispettosa ammirazione: obbediscono (forse senza saperlo) a questa legge che Dio ha impresso nel cuore di ognuno: “Non è bene che l’uomo sia solo… gli voglio fare un aiuto che gli corrisponda… Non saranno più due ma una sola carne”. (Il che vale sia per l’uomo che per la donna: è tutti e due assieme che possono offrire un’immagine bella di Dio!). Ma allora, se sono fatti l’uno per l’altro, perché a volte la coppia si divide e ognuno se ne va per conto proprio? È comprensibile il disappunto, l’amarezza, di fronte ai casi frequenti di separazione che avvengono al giorno d’oggi – soprattutto se tra parenti, amici o conoscenti – ma non sarà fuori luogo ricordare che anche tra gli Ebrei del tempo di Gesù questa eventualità era tutt’altro che rara (con l’aggravante, oltretutto, che l’iniziativa della separazione era riconosciuta solo all’uomo, non alla donna). “Mosè ce l’ha permesso” – dicono i farisei a Gesù. E i rabbini avevano elencato tutta una serie di motivi per cui avvalersi di tale concessione, da quelli più gravi a quelli più futili.

“Sì, è vero – risponde il Signore – ma Mosè ve l’ha permesso per la durezza del vostro cuore”, cioè per la vostra immaturità nell’amore, per l’incapacità di relazionarvi l’uno all’altro, perché se pure grandi di statura e avanti negli anni – nell’intimo siete rimasti piccini, accartocciati su voi stessi. “All’origine non fu così…” infatti. Nelle intenzioni di Dio che vi ha creati, voi siete fatti per l’unità, per la condivisione, anzi: per la comunione. Proprio perché siete immagine di Lui, che è comunione di persone.

Ritengo che non abbiamo alcun diritto di giudicare le storie e le situazioni di chicchessia; lungi da noi concludere che quelli che stanno insieme sono bravi e quelli che si separano invece no: certi giudizi sono competenza di Dio, l’unico che scruta i cuori, ben aldilà della facciata e delle apparenze. Anzi, a chi sperimenta situazioni di divisione, soprattutto se intrise di sofferenza, proprio in nome di Dio occorre testimoniare comprensione e misericordia. Il che, tuttavia, non esime dal riconoscere che la durezza dei cuori, cioè l’immaturità nell’amore, è ancora molto diffusa tra noi e contagia in maniera pesante la nostra cultura. Siamo ancora lontani dal vedere le cose, le situazioni, le persone, con lo sguardo obiettivo di Dio: sguardo che vede chiaro, non distorto; sguardo limpido, non malizioso o interessato, o addirittura cattivo. Siamo ancora lontani, probabilmente, dallo sguardo di quei bambini che nel vangelo di questa domenica Gesù indica a modello, affermando: “A chi è come questi bambini appartiene il Regno dei cieli”. Quel Regno nel quale l’uomo accoglie la sua donna come dono e la donna fa altrettanto con il suo uomo. Quel Regno nel quale l’uomo e la donna stanno insieme non solo né anzitutto per la loro buona volontà, ma perché sanno di essere dono di Dio l’uno per l’altro, e sua immagine. Lo sanno, senza darsi delle arie per questo, ma anche senza mai dimenticarlo.

Alle porte di quell’autorevole consesso di vescovi che dovrà riflettere e trarre conclusioni a questo riguardo, probabilmente la cosa più saggia da fare è domandare a Dio che ci dia lo sguardo di quei bambini e ci guarisca da quella durezza di cuore che è il vero ostacolo alla nostra possibile felicità.

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