Dire la verità o lasciare che sia condannato un innocente? Giurato numero 2, ultimo film del novantaquattrenne Clint Eastwood – ma sarà veramente l’ultimo del grande regista americano, alla 42a pellicola diretta? -, scritto da Jonathan Abrams, è imperniato sul dilemma morale che il protagonista, Justin Kemp (Nicholas Hoult), deve affrontare. Chiamato come giurato di un tribunale di Savannah, in Georgia, il giovane ex alcolista capisce (dopo rapidi flashback) di aver accidentalmente causato la morte di Kendal Carter (Francesca Eastwood, figlia di Clint), fidanzata dell’imputato, James Sith.
È l’unico in aula a sapere la verità, ma sceglie di mantenere il segreto. Il presunto omicida è un ex spacciatore di droga, il colpevole ideale per i giurati e anche per l’avvocata della pubblica accusa, Faith Killebrew (Toni Collette), che, aspirando a diventare procuratrice generale, spera di ottenere voti con una condanna esemplare per violenza domestica.
Ma la Giustizia, evocata all’inizio della pellicola nell’immagine della dea bendata simbolo di imparzialità, non corrisponde sempre alla verità, il sistema non è perfetto, afferma la giudice, e di certo non corrisponde agli interessi personali di Justin, che nella prima scena accompagna Ally, la moglie incinta, anch’essa bendata, nella stanza del figlio che stanno aspettando.
Il sistema giudiziario americano, basato sul diritto ad un processo con giuria popolare, non è esente da superficialità e pregiudizi, e Eastwood mostra un uomo considerato marito e giurato perfetto che, per salvare sé stesso e l’imputato innocente, mettendo a tacere il senso di colpa, cerca di instillare nei giurati ragionevoli dubbi. Per fare ciò che ritiene giusto, il giovane infrange le regole, scegliendo di proteggere la sua famiglia, che rappresenta il riscatto dal suo passato, in contrasto con l’etica e il dovere pubblico. Il regista pone cinematograficamente il dilemma sul piano “visivo”: la verità, nascosta in una notte buia e tempestosa, ritorna alla luce del sole; si dà credito ad un testimone oculare anziano confuso; Ally per sbaglio spegne la luce in soggiorno lasciando il marito solo al buio; la dea bendata prende un abbaglio; e il film, asciutto, scorrevole, provoca senza toni altisonanti. Fuori dal tribunale dopo la sentenza di condanna all’ergastolo di James e sotto le dondolanti bilance della statua della dea Giustizia, Justin si autoassolve: un incidente non può rovinare la vita di un uomo onesto, mentre Faith capisce che non ha voluto “vedere” bene, puntando solo a fare carriera.
La scena finale, tuttavia, fa spazio al dubbio della neo- procuratrice attraverso un “guardare” Justin che lo chiama alla responsabilità personale. In un “legal thriller” classico, si inserisce il cinema riflessivo di Eastwood, che interroga le coscienze: di fronte all’umana imperfezione non c’è una netta distinzione tra bene e male, e si può tornare sui propri passi anche quando il tempo per farlo sembra essersi esaurito, come fa Toni Collette nella sua efficace interpretazione, la migliore del film.
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