Lo spunto
Il voluminoso Rapporto Draghi sulla competitività europea è una analisi impietosa delle gravi strozzature che rappresentano per il continente una sfida esistenziale. La terapia suggerita, dura ma fattibile, benché accolta con qualche freddezza, è infatti una cura da cavallo contro la frammentazione e lo sconfinamento, i deficit infrastrutturali e tecnologici, il ginepraio burocratico e le contraddizioni delle normative nazionali, i nodi cioè di un’alleanza intergovernativa fra Stati che, non ancora propensi a una vera unità, rischiano un inesorabile declino. Di questa cura impressiona soprattutto il massiccio bisogno di investimenti, mai visto nell’ultimo mezzo secolo (750/800 miliardi annui) affrontabile soltanto con debito comune, bilanci austeri e controlli severi, temi sgraditi a molti governi, al punto da far ipotizzare al prof. Paolo Pombeni ( Vita Trentina, 15 settembre) che Draghi abbia voluto scrivere “per la storia” mettendo agli atti la consapevolezza del tornante decisivo che, se non affrontato a dovere sarà ” per colpa di classi dirigenti senza visione e con scarso coraggio.
Paolo Spagni ( Vita Trentina, 22 settembre 2024)
Bisogna essere grati a Mario Draghi per il suo Rapporto. Se l’ha scritto “per la storia” – come acutamente commenta Paolo Pombeni – sicuramente l’ha fatto in un’ottica di “profezia” degasperiana, secondo la definizione dell’arcivescovo Maffeis nella sua “lectio” di Pieve Tesino. Non quindi per fare da Cassandra o per impaurire gli ascoltatori, ma per stimolarli a riflettere con maggior consapevolezza e coerenza sul loro futuro e su un’Europa nella quale i “pro” e i “contro” non possono essere legati solo a reazioni emotive o a rigurgiti di passati nazionalismi. Non a caso Mario Draghi è uno dei pochi uomini pubblici dell’Economia e dell’Accademia ad avere una statura da statista consapevole, come lo era De Gasperi, che essere un capo non significa ottenere maggiori consensi di parte, ma “costruire un popolo”, alimentare quindi fra i cittadini una consapevolezza comune, il proposito di una meta da raggiungere insieme. Per questo il Rapporto Draghi pone riflessioni e interrogativi che riguardano noi tutti, non solo gli Stati, ma i territori, le autonomie, i cittadini. Per questo ci permettiamo di intervenire con alcune osservazioni e riflessioni, da semplici cittadini, appunto, giornalisti, osservatori di ciò che ci accade all’intorno. Tenendo presente che la conclusione finale del suo discorso è un punto fermo da cui partire e da tutti sentito come imprescindibile. È questo, infatti, il tempo per investire, non può essere più quello del consumare ad ogni costo (si veda anche il servizio di copertina di Vita Trentina nel numero scorso), ché ormai s’è visto come il consumo si trasformi ben facilmente in consumismo, portando ad una serie progressiva di degradi umani ed economici. Il rigore e i controlli richiamati da Draghi dovranno riguardare anche questo aspetto del problema, non solo i fattori per incrementare la produttività e la competitività.
A questo punto si pongono alcuni interrogativi, ad integrazione dell’analisi dell’ex governatore della Banca d’Italia, ed ex presidente del Consiglio. Il primo riguarda le condizioni interne dell’Europa, il secondo i condizionamenti esterni. Primo: siamo davvero convinti che la crisi europea (non solo la prospettiva di un declino, ma il malessere crescente che serpeggia nel tessuto sociale) derivi da un deficit di produttività e non anche da altri fattori? Perché l’impressione è che in Europa stia avvenendo qualcosa di più profondo, forse il passaggio da una “economia sociale” (l’Europa ne è stata coraggiosa avanguardia e promotrice di successo) ad una “economia civile”, basata sul “fare insieme”, invece di competere ed ostacolarsi per prevalere. E questo sia in molti servizi pubblici (trasporti, taxi…) che in attività di lavoro (turismo, ricettività…) perché l’emergere di nuovi bisogni si scontra con esigenze diverse da quelle idealizzate dai consolidati classici sistemi di liberalizzazione dei mercati. Alcuni sistemi di intervento (come gli appalti o la concorrenza priva di limiti) non funzionano più. Non siamo più al mercato con cui si confrontavano i pensatori liberali inglesi del Settecento. Oggi sul mercato si affermano le grandi liquidità che non derivano, per la maggior parte, dal lavoro, ma dai traffici oscuri (per usare un eufemismo) o dai monopoli tecnologici, che rendono chi li controlla i nuovi boiardi dell’economia e della politica, o da multinazionali che possono vantare il predominio e il controllo di interi territori.
Ecco allora, di fronte alle nuove esigenze accresciute (e spesso al carico burocratico che le accompagna), il malessere e la demotivazione di intere categorie di lavoratori (e basti pensare ai “gilet gialli” francesi, o ai balneari italiani, o agli stessi albergatori in molte zone turistiche) che si vedono a rischio di perdere un lavoro a vantaggio di gruppi mafiosi, ormai diffusi in tutto il mondo, o di multinazionali. Queste ultime stanno compiendo acquisti in tutti i settori, anche nella sanità privata, come si è visto nel crescente malessere del settore, sfociato anche nel Trentino (vedi l’Adige del 24 settembre) in azioni di astensione dal lavoro che certo non aiutano la produttività. Insomma, forse il Rapporto Draghi andrebbe riletto e studiato in un contesto più ampio ed articolato. Forse bisognerebbe chiederne qualcosa al prof. Stefano Zamagni, dell’Università di Bologna, promotore dell’economia civile. Quanto ai condizionamenti esterni (che il Rapporto richiama) andrebbero forse affrontati con maggior decisione. E il primo, fondamentale condizionamento da superare sono le guerre, quella in Medio Oriente e, ancora più temibile, quella in Ucraina, che formano una morsa che davvero stringe al collo l’Europa impedendole non solo produttività e competitività, ma un sano sviluppo che le consenta di affrontare il futuro e i suoi problemi.
Anche per questo l’Europa deve recuperare il suo ruolo, che è di pace; un ruolo prioritario di pace superiore ad ogni categoria economica, un ruolo che va rivendicato con decisione, evitando la situazione attuale che vede l’Europa subordinata fornitrice di armi o pilatesca spettatrice di distruzioni. La guerra ha non solo un peso insostenibile sull’Europa (costi dell’energia, mancanza di grano, aumento dei costi, esportazioni frenate verso l’Asia…) ma le toglie identità e ruolo geopolitico, la riduce a poco attraente colonia delle grandi potenze. È la priorità assoluta quella di lavorare insieme per un “cessate il fuoco” che ponga una tregua alle armi e consenta di avviare un processo di pace, sempre più necessario anche se non facile viste le condizioni storiche di partenza delle diverse crisi conflittuali, e dell’odio che si è accumulato ed è cresciuto in questi anni. E tocca all’Europa metterci le mani.
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