Rinaldo Fauri, il cantore schivo

Organista sapientissimo, per la sua speciale competenza fu “Ispettore onorario degli Organi trentini”. Ma lo si ricorda anche per l’apporto alla coralità montanara

E’ vero – come dichiarava Pasolini – che “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita”. La scomparsa del musicista concittadino Rinaldo Fauri avvenuta in maniera inaspettata il 27 ottobre 2016 (era nato il 2 agosto del 1934), personaggio colorito intransigente e reattivo della cultura popolare trentina, evoca in vividi flash i momenti di un’esistenza incisiva e di un assai inquieto ‘esserci stato’ nel panorama della nostra vita artistica degli anni recenti.

Il carattere assolutamente roccioso e irascibile di Rinaldo Fauri (volentieri nascosto in pubblico nell’ossequio), ma anche edonista e arguto, si imponeva come un privilegio personale di libertà.

Della quale – a sua scelta – egli poteva farti o consonante o nemico; prendere o lasciare: poiché la sua ampiezza culturale e la sua erudizione, ambedue di primissima mano, non intendevano perdonare la minima ombra di supponenza avanzata dal mondo circostante.

Ma un carattere ipercritico ha le sue motivazioni. E’ indicativo che l’idolo intellettuale di Fauri fosse Benvenuto Disertori: più che un cittadino sincretista del mondo, colui che indicasse la strada-progetto, pratica e severa, per esprimere una passione alla propria terra, al Trentino; terra che Fauri – suo malgrado e conflittualmente, ma inesorabilmente – ha dimostrato di amare.

Come accettarne, annessi, i famigerati esponenti? Come affrontarne e sventarne le doppiezze, le noncuranze o gli sgambetti, insomma il dazio da pagare in ogni rapporto sociale niente affatto regionale ma umano? Quel tanto di emblematico che una regione vanta non la aliena dal contesto nazionale… e forse Fauri si indignava – com’è nello spirito di ogni provincia e nella dose obbligata di legittima autoriduzione – a che il suo ‘carcere’ (tuttavia dorato, per bellezza geologica e storica) potesse svelare un ipotetico ‘peggio’.

Sta di fatto che Fauri a questo ‘carcere’ ha dedicato amorosamente energie e vita: ne sono prova la sua presenza nel lievito culturale e artistico della Trento dell’ultimo scorcio di secolo, e soprattutto il suo impegno musicale teorico e pratico: organista sapientissimo nei colori timbrici – vedere peraltro l’ingegnoso scherzo robotico in musica del CD “Noterosse di Controcultura” (1995) – fu compositore e animatore del “Coro Dolomiti” dal tempo di Giorgio Garbari (1962) e saltuariamente oltre. L’esordio di Fauri nella coralità montanara era avvenuto nel ’50, quando Franco Sartori, autore di un’opera affascinante come il ‘Il mistero di San Vigilio’, nonché armonizzatore e direttore artistico del “Coro della Sosat” guidato da ‘Nano’ Nardon, stava creando un corpus di nuove elaborazioni. Fauri fu assistente programmatore musicale alla Rai TV; membro della Commissione artistica e socio del Festival regionale di Musica Sacra; del Centro educazione musicale della Libera Università degli Studi di Trento, del Comitato esecutivo dell’orchestra Haydn; ebbe anche una viva collaborazione col tenore Rudy Forti. Inoltre, grazie alla sua speciale competente disciplina, fu ‘Ispettore onorario degli Organi trentini’.

Meritò i premi ‘Stella del Cardo’ e ‘Spiritualità Alpina’ per la musica di montagna.

Ma per chi vorrà gustare la penna del Fauri prosatore, intinta (si fa per dire, poiché egli era un accanito digitalista) nell’inchiostro dell’acribìa del cronista autentico, restano i suoi testi autonomi, appassionatamente da lui curati perfino nell’esuberanza decorativa dei caratteri grafici informatici (entusiasmo per il nuovo mezzo) e nella rilegatura. Depositati nelle biblioteche cittadine, i gustosissimi tomi indagano in modo colloquiale e vivace con dovizia di dati assai antecedente a Internet, le manifestazioni della musica popolare, tanto altro, e storia e arte organaria specie nel Trentino.

Eccone i titoli: ‘Canta con noi: raccolta di canti popolari’ (ed. Paoline); ‘Canzoni di ricordanza: 80 brani popolareggianti nello stile colto polivocale’; ‘Psallite Domino: piccola antologia di devozione popolare’; ‘Il flauto di Marsia: riti miti e detriti della cultura musicale’; ‘Ex dissonis concentus: alcuni aspetti singolari della creatività musicale’; ‘Immagine e supporto: appunti note citazioni e altre inutili quisquilie’; ‘Triskelion: piccola trilogia musicale’; ‘Organi di chiese trentine: 60 strumenti e un’appendice’; ‘Sintesi dell’opera “Il beato Stefano Bellesini”, musica di Renato Lunelli, parole di Augusto Goio’.

A svelarmi il mondo dell’Organo fu proprio Rinaldo Fauri, nel dopoguerra, coinvolgendo le nostre due gioventù in libere avventure musicali che lui apriva sedendo alle consolle di tanti remoti Organi della provincia. Il sottoscritto sostava per lo più nella navata deserta inebriandosi dei colori timbrici sapientemente evocati dall’interprete, mediatore tra l’anima (pneumatica) e il corpo (canne, stagno, zinco, legno, leveraggi, ecc.) dell’incomparabile macchina sonora.

Jacques Deridda, sul tema della morte, in “Ogni volta unica, la fine del mondo” (2003) ci ricorda “ l’innegabile anticipazione del lutto, di cui è fatta l’amicizia”. Con Rinaldo Fauri intrattenemmo un rapporto epistolare tra Roma e Trento durante un quarantennio. Trattammo – un po’ celiando – temi di vita spicciola e talvolta culturale, e non fummo mai reciprocamente invasivi.

Ci governava un ‘trentino’ ritegno: forse quel rispetto nativo del vivo al vivo, presente addirittura nel cacciatore. Quel rispetto che perfino l’ira, ma come una terra grave e fertile, può talvolta celare.

Agostino Raff

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