Ormai si sente e si usa dappertutto: “in primis” lo dice un politico che annuncia le sue priorità e il sindacalista che avanza le sue richieste, ma perfino il dentista che dispone l’anestesia e il meccanico quando alza il cofano. Lo si dice, “in primis”, perché va di moda come il sostantivo “resilienza” o l’avverbio “assolutamente”, ma anche perché questo latinismo maccheronico fa sembrare colti, o semplicemente perché si reputa banale dire un limpido “prima di tutto”.
Affrontiamo il cruciale problema del linguaggio – anche dentro la Chiesa – con un taglio autocritico: in redazione a Vita Trentina ci siamo imposti il divieto di scrivere “in primis” così come di usare parole straniere quando esistono facili sinonimi italiani: all inclusive per dire “tutto compreso” oppure live invece che “dal vivo”.
È un dovere evangelico quello di farsi capire da tutti e deve valere negli ambienti ecclesiali se la “buona notizia” va annunciata poi “lungo le strade”. In generale, l’utilizzare un linguaggio alto e ricercato – sia nel dialogo a tu per tu che nei discorsi dal palco o negli interventi al microfono – costituisce spesso uno sfoggio esibizionistico, talvolta anche un modo per mettere in difficoltà o far sentire in inferiorità i tuoi interlocutori. Peggio ancora se diventa il tentativo di confondere le acque, nascondendo quel che si pensa o quello che non si vuol dire. Vengono in mente certi meccanici che ipotizzano come motivo del guasto un “dibimetro” che non sai nemmeno cosa sia oppure certi relatori che premettono “istanze metodologiche” lunghe dieci minuti al loro intervento della durata massima prevista di quindici minuti.
Intendiamoci, ogni disciplina ha il suo lessico specifico e la proprietà di linguaggio è richiesta a livello scientifico, ma nel parlare quotidiano dobbiamo sempre chiederci in anticipo se può essere recepito dai miei ascoltatori quanto sto per dire dentro quel determinato contesto. O, al contrario, se è destinato a risultare fumoso e incompreso. Non a caso i giornalisti più autorevoli sono quelli che eccellono nella chiarezza: ricordiamo Enzo Biagi, a 15 anni esatti dalla morte, e il suo stile giornalistico inconfondibile perché “senza inutili orpelli”, come ha scritto il critico televisivo Aldo Grasso. Ma anche Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono degli ottimi divulgatori nei loro Vangeli; citano un Maestro che usava tante parabole e che ebbe a dire – a proposito di sincerità e trasparenza – la frase imperativa: “Il vostro parlare sia sì sì, no no… “(Mt 5). Il resto viene da quella malizia che finisce per inquinare le relazioni e ostacola il dialogo franco. Chi ha avuto sabato scorso la possibilità di leggere per la prima volta la “sintesi delle sintesi” del nostro Cammino sinodale, ovvero il frutto del primo anno di lavoro in diocesi (vedi pag. 14 e 15), avrà forse gustato una esemplare schiettezza. Si direbbe “parresia” in quell’ecclesialese (sempre in agguato), vocabolario da “addetti ai lavori” che allontana tutti gli altri.
Che il problema sia spesso sottovalutato lo denunciano gli stessi Gruppi di ascolto sinodali quando affermano che “il linguaggio della Chiesa è in genere lontano dalla realtà”, mentre i Gruppi di giovani lo giudicano “noioso e poco stimolante“. Ci si riferisce poi esplicitamente “al modo di celebrare e di esprimersi da parte della Chiesa che è per molti indecifrabile e quindi non significativo per la propria vita”. Si chiedono nuovi linguaggi nella liturgia e nei sacramenti perché “hanno senso solo se intercettano la vita e sono capaci di parlare ad essa”. Si apre una riflessione che va estesa quindi anche alla predicazione, alla catechesi e al resto della comunicazione ecclesiale: ci sarà tempo per confrontarci su questo anche nelle Assemblee di Zona del secondo anno sinodale, ma potete intervenire su queste nostre/vostre pagine “in primis”, anzi no.
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