Transfobia: il corteo e la complessità

Partecipare martedì sera a Trento al corteo di solidarietà contro l’aggressione ad una poliziotta trans (22 punti di sutura e “ferite” anche psicologiche) è stato condividere un allarme triplo: per una violenza bruta aggravata dalle frasi transfobiche, per la provenienza degli aggressori Ultras dagli spalti del nostro stadio, che non dovrebbero mai più ospitare espressioni di tipo fascista, per l’appartenenza dell’aggredita a forze dell’ordine (anche se in borghese) che “servono” la convivenza civile. Questi tre elementi – mentre si attendono gli approfondimenti dei magistrati sull’andamento della rissa notturna in quel bar vicino al “Briamasco” – devono essere stigmatizzati da tutti i trentini, non solo in città, al di là di ogni loro appartenenza politica. Anche perché rientrano in un clima purtroppo ancora omofobo (nonostante le tante campagne di sensibilizzazione) che anche in altre cittadine italiane registra gesti di violenza contro le persone LGBTQIA+: talvolta sono basati su atteggiamenti discriminatori o escludenti radicati in certe espressioni (si pensi solo all’epiteto “dell’altra sponda”) oppure sono collocati dentro pregiudizi tanto falsi quanto grezzi come quello che associa automaticamente il termine trans agli ambienti della prostituzione.

Ma mettersi dentro il corteo, ascoltando le richieste di rispetto da parte di una comunità che deve essere riconosciuta (e forse anche conosciuta), è esprimere partecipazione verso una sofferenza che emerge anche da molti racconti di genitori. Soffermandosi qui al tema della transfobia (per non aggrovigliarsi in aspetti che meritano di rimanere distinti e richiedono ben altri luoghi di approfondimento) si comprende quanto sia comune nelle persone trans la percezione di distanza, di avversione e talvolta anche di rifiuto testimoniato proprio dalla poliziotta aggredita: “A livello sociale il percorso è più difficile – ha confidato al Corriere della Sera, raccontando le fasi del suo percorso di transizione dopo aver constatato con la psicologa la sua disforia di genere (la condizione di disagio o angoscia legati all’incongruenza tra la propria identità di genere e il sesso biologico, ndr) – perché Trento è una piccola città, non molto aperta, dove sei giudicata. C’è chi ti deride e fa la battutina, c’è chi ti considera il peggio del peggio e ti guarda con disprezzo”. Per comprendere in profondità questa condizione serve molta più informazione: secondo gli studi più recenti, ad esempio, la disforia di genere – o disturbo della differenziazione sessuale – è un problema che riguarda una persona ogni 9mila, quindi circa 7mila in Italia. Ai centri specializzati si rivolgono adolescenti accompagnati dai genitori, ma anche persone mature di 50 o 60 anni, che si sentono «ingabbiati» in un’identità che percepiscono diversa rispetto al proprio sesso biologico, e hanno deciso di cercare di riallineare psiche e corpo, ritrovando serenità e felicità. Davanti a questi dati – minoranza significativa, che coinvolge molte famiglie – è ingiusto ogni tentativo di minimizzare, banalizzare o addirittura condannare, tirando in ballo “condizionamenti culturali” che non rientrano in certe situazioni diagnosticate anche da medici e psicologi. C’è insomma una grande complessità di condizioni (fisiche e psicologiche) da conoscere anche scientificamente. Per questo sul tema i teologi moralisti oggi raccomandano soprattutto comprensione quell’accoglienza richiesta da Amoris Laetitia (2015) per cui ogni persona deve essere ascoltata, e accompagnata, anche nell’integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità”.

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