Ad oltre un anno di distanza dal feroce attacco di Hamas contro Israele e da una altrettanto feroce e sproporzionata reazione da parte di Tel Aviv lo stato ebraico non è più sicuro di prima, ma certamente è molto più isolato nel mondo. L’apertura di un secondo fronte con il Libano se ha spostato l’attenzione da Gaza non ha certamente chiarito gli obiettivi strategici di Benjamin Netanyahu né avvicinato la conclusione del conflitto, anzi ne ha accresciuto enormemente i problemi e gli ostacoli da superare. La “vittoria militare” auspicata dal governo israeliano è di là da venire, se non impossibile. Fino ad oggi, infatti, malgrado l’incalcolabile ammontare di morti civili e le estese distruzioni, Netanyahu non ha sconfitto Hamas, non ha ottenuto la liberazione degli ostaggi ed ha aperto il fronte libanese per permettere ai suoi concittadini (circa 60mila) di ritornare al nord dopo essere stati evacuati per sfuggire ai razzi degli Hezbollah del Libano.
Tutte queste drammatiche vicende ci portano già da ora a formulare alcune riflessioni. La prima è che ci troviamo alle prese con una guerra asimmetrica in cui uno stato (Israele) lotta contro dei movimenti terroristici armati. È un discorso che vale sia per Hamas, che agisce con i metodi tipici che abbiamo sperimentato con Al Qaeda e con l’Isis, sia per gli Hezbollah una milizia militarmente molto potente e politicamente influente sullo stato libanese, che agisce come braccio armato dell’Iran ai confini del nemico Israele. Questi movimenti, profondamente ideologizzati, sono per loro natura estremamente sfuggenti e, anche se apparentemente sconfitti, pronti a rinascere. Ne sanno qualcosa gli americani che dopo l’attentato alle due torri nel 2001 hanno pensato bene di combattere i terroristi di Al Qaeda dichiarando prima guerra all’Afghanistan (che ne ospitava le basi) e poi all’Iraq accusato erroneamente di chissà quali malefatte. Come la storia ci insegna Washington ha successivamente perso il controllo sull’Iraq e ha dovuto precipitosamente ritirarsi dall’Afghanistan. L’unico “successo” ottenuto è stata l’uccisione di Osama bin Laden, ma non attraverso una guerra bensì con un’operazione di intelligence in Pakistan dove il fondatore di Al Qaeda si era nascosto.
Difficile pensare che per Israele le guerre in corso portino verso un destino diverso se non si trovano strade alternative per battere il terrorismo. Una strada, cioè di dialogo, come ha avuto modo di suggerire su queste colonne padre Francesco Patton, per la quale “come cristiani dovremo lavorare molto al fine di promuovere la fiducia, la convivenza, la comprensione e l’accoglienza reciproca”.
Queste parole ci portano ad una seconda riflessione e cioè sul vuoto assoluto al dialogo e all’azione di mediazione cui dovrebbero essere deputate le Nazioni Unite. Anzi, nel caso in questione non è parso vero a Benjamin Netanyahu di attaccare a fondo l’Onu a cominciare dalle accuse all’Unrwa (l’agenzia per gli aiuti ai palestinesi di Gaza) di collusione con Hamas, sia dichiarando il Segretario Generale Antonio Guterres persona non gradita, sia infine attaccando il contingente dell’Unifil collocato proprio al confine fra Israele e Libano allo scopo di evitare il riproporsi di situazioni di conflitto fra le milizie Hezbollah e l’esercito di Tel Aviv. Obiettivo, va riconosciuto, largamente fallito per la cattiva volontà politica delle parti in causa, ma che in ogni caso illustra concretamente l’irrilevanza odierna delle Nazioni Unite in un mondo che è sempre più dominato dalla logica del potere nazionale e dall’utilizzo dello strumento della guerra come normale fattore di politica estera dei governi. Impotenza anche del paese, gli Stati Uniti, che più di altri aveva voluto dare vita all’Onu, dopo l’ultimo grande conflitto mondiale, proprio per avere un luogo ove risolvere collettivamente i conflitti fra gli stati. Oggi la debolezza dell’amministrazione Biden è bene illustrata dalle dieci inutili missioni del segretario di stato Antony Blinken, volte a mediare una soluzione fra Hamas e Israele. Certo le prossime elezioni presidenziali di novembre non aiutano, ma assieme all’indebolimento dell’Onu va messo nel conto della mancata influenza su Israele anche quello dell’amministrazione americana.
Infine, in questo quadro fatto di vuoti politici e di mancanza di visioni strategiche va messa anche l’Unione Europea, che si sta affacciando solo oggi sulla scena mediorientale dichiarando collettivamente l’inammissibilità degli attacchi israeliani all’Unifil, missione di pace cui partecipano 16 stati dell’UE. Si è anche deciso di continuare a finanziare gli aiuti distribuiti dall’Unwra ai palestinesi di Gaza. Ma dove sta la volontà di negoziare, di aprire un dialogo fra le parti in lotta, di evitare che un conflitto alle nostre porte si estenda ancora di più? Sono lontani i tempi in cui l’UE era parte attiva nella mediazione con l’Iran per arrivare alla firma di un trattato sul controllo del nucleare in quel paese. Trattato poi rigettato da Donald Trump, appena eletto, e che di conseguenza ha portato Teheran a due passi dalla produzione di ordigni nucleari. Oggi nell’UE prevalgono invece le divisioni fra sostenitori a spada tratta di Tel Aviv e coloro che vorrebbero adottare sanzioni economiche bloccando il trattato di libero scambio. Ma la strada dovrebbe essere innanzitutto quella del dialogo e della mediazione. Non può essere solo il rumore delle armi a dettare l’agenda degli sconvolgimenti nel Medio Oriente.
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