Il ritiro di Biden lancia Harris

Il giorno della trionfale ricandidatura di Donald Trump alla convention repubblicana di Milwaukee un sito on line sintetizzò l’evento con il titolo “Il giorno di Trump e la notte di Biden”. Un efficace riassunto di una caotica campagna elettorale che contrapponeva un candidato anti- democratico e condannato penalmente ad un altro candidato, non ancora ufficialmente nominato, che oltre all’età avanzata soffriva spesso di vuoti di memoria e stanchezza mentale.

Nel giro di poco più di una settimana lo scenario delle prossime elezioni americane è radicalmente cambiato: come quasi tutti si aspettavano Joe Biden rinunciava a fatica alla propria ricandidatura. Problemi di salute hanno quindi affossato le speranze di un secondo mandato del presidente in carica.

In effetti Biden non ha fatto male nel corso degli ultimi quattro anni alla Casa Bianca. Ha innanzitutto ripristinato le regole democratiche dopo il quasi- golpe di Capitol Hill sostenuto da un Trump furioso di avere perso le elezioni. Per un paese che è stato nella storia dell’umanità un prototipo di democrazia e che solamente nel secolo passato è intervenuto per ben due volte in una guerra volta a salvare l’Europa dalle dittature, il preservare la propria democrazia interna da impulsi autoritari è stato di per sé un risultato straordinario. Inoltre, Biden, dopo le difficoltà del Covid, è riuscito anche a riavviare l’economia, ad abbassare drasticamente la disoccupazione e a mettere in parte sotto controllo l’inflazione. Per di più ha lanciato un enorme piano di investimenti nel campo delle nuove tecnologie necessarie per affrontare il tema dell’industria green.

Sul piano internazionale ha preso la guida della coalizione di stati, fra cui l’UE, per contrastare le azioni guerresche di Vladimir Putin ed è riuscito nell’impresa di ridare vita alla Nato allargandola a paesi, come Svezia e Finlandia, che nel passato avevano adottato un atteggiamento di neutralità nei confronti di Mosca. Meno fortunato è stato nel contenere la furiosa reazione di Israele al proditorio attacco di Hamas contro cittadini israeliani. Ma è noto quanto Israele conti nella politica e nell’economia americana e come sia difficile influenzare il governo di quel paese, soprattutto oggi con un leader autoritario come Benjamin Netanyahu sostenuto per di più da una destra religiosa, integralista, anti- palestinese.

Malgrado questi risultati complessivamente buoni le possibilità di battere Trump erano limitatissime: di qui le pressioni per abbandonare la corsa prima della convention democratica del 19 agosto a Chicago.

Ora il partito di Biden deve ricominciare da zero e nel brevissimo periodo rimasto deve inventarsi (e sostenere con convinzione) un candidato alternativo. Biden, come è noto, ha indicato la propria vice Kamala Harris, ma non è detto che essa abbia i numeri e il carisma per battere il tycoon Trump, personaggio supertelevisivo ed estremamente populista, pronto a vivere di slogan che colpiscano la fantasia di una grande fetta della popolazione americana, quella rurale e lontana dalle città e dagli stati culturalmente più avanzati.

Per l’UE un ritorno di Trump sarebbe un autentico disastro: già abbiamo sperimentato nei quattro
anni della sua presidenza il profondo disprezzo per l’UE e perfino per la Nato, che malgrado tutte le sue debolezze rappresenta pur sempre il cuore del dialogo fra le due sponde dell’Atlantico. Per di più la sua ammirazione per i dittatori, da Kim Jong-un della Corea del Nord al leader cinese Xi Jinping o per Vladimir Putin, può trasformarsi in una fonte di ulteriore instabilità geopolitica.

Naturalmente con Kamala Harris o con un altro candidato democratico il discorso sarebbe notevolmente diverso. Se fosse ad esempio la Harris si può ben credere che la parola d’ordine in politica estera sarebbe continuità, sia nei confronti di Putin che del sostegno all’Ucraina, sia per una sua dichiarata convinzione di rafforzare la Nato e con essa anche lo stretto rapporto con l’UE. Forse qualche distinzione ci potrebbe essere sulla questione palestinese e sul blocco del trasferimento di armi ad Israele per accelerare il cammino verso un definitivo cessate il fuoco. Posizione non lontana dai desideri della maggioranza dei paesi europei.

Ma perché la Harris possa alla fine prevalere dovrà innanzitutto passare sotto le forche caudine della convention democratica e poi dimostrare la propria determinazione a combattere contro l’arroganza di Trump dimostrando di essere una leader capace e credibile. La sua esperienza, per quanto di secondo piano come vicepresidente, potrebbe aiutarla anche perché la Harris ha dovuto spesso sostituire il sofferente Biden in diversi appuntamenti internazionali ed ha quindi potuto conoscere potenziali interlocutori futuri. In aggiunta la clamorosa, per quanto attesa, uscita di scena di Biden riorienterà i media americani e internazionali sulle vicende interne del partito democratico togliendo gran parte dell’attenzione del pubblico da Trump e dalle sue estemporanee uscite e apparizioni pubbliche.

Peccato che Biden abbia impiegato tutto questo tempo e dimostrato tutta la sua riluttanza a fare marcia indietro. Costruire un candidato forte non può essere solo questione di qualche giorno. Trump parte quindi in vantaggio e per Kamala Harris o per eventuali altri candidati democratici la strada verso la Casa Bianca sarà tutta in salita.

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