Se si osserva la nostra scena politica ciò che colpisce è la crisi dei partiti, almeno se consideriamo sotto questa etichetta le tradizionali organizzazioni di raccolta e indirizzo di quote di culture politiche e di integrazione delle componenti sociali in modo da marginalizzare gli interessi puramente di clan.
Quelli che oggi chiamiamo partiti sono ormai organizzazioni di professionisti della politica che cercano di compattare attorno a sé inclinazioni che esistono nella pubblica opinione per mescolarle con interessi di corporazioni, sempre più spesso micro-corporazioni. Come è sotto gli occhi di tutti questo ha generato due fenomeni correlati: da un lato la fuga di quote rilevanti della cittadinanza dall’attività politica, persino da quella elementare della partecipazione alle elezioni (siamo ormai stabilmente intorno al 40% di astensioni), dal lato opposto l’esasperazione dell’aspetto leaderistico per cui ogni formazione è caratterizzata da una lotta intestina per l’occupazione del vertice organizzativo in modo da essere nella condizione di “tirarsi dietro” coloro ai quali si offre una vaga identificazione con le loro preoccupazioni, se non con le loro paure.
Nella attuale fase di lotta esasperata per il piazzamento nella competizione elettorale delle Europee questa fenomenologia risulta particolarmente evidente. È da manuale la concorrenza fra Meloni e Salvini, così come quella fra Schlein e Conte: in entrambe non ci si confronta su idee o progetti, ma su slogan e mantra che si spera colpiscano la pancia dei potenziali elettorati di riferimento.
Peraltro è singolare che questa dinamica non conosca contrapposizioni efficaci. A destra non è certo Forza Italia in grado di mettere un freno alla corsa della premier e del suo vice, in quanto il suo vertice (Tajani) non riesce ad inserirsi nel duello fra i due non disponendo né della arroganza ribalda di Salvini, né del fascino di Giorgia Meloni che sfrutta la sua posizione internazionale in quanto presidente del Consiglio. A sinistra, ammesso che per l’opposizione si possa usare questa etichetta, non si vedono alternative a Schlein, nonostante la sua performance non certo esaltante, né a Conte che si è fatto il vuoto intorno dominando incontrastato il suo movimento.
La concorrenza ai due non può certo farla l’estrema sinistra, anch’essa priva di un leader di qualche fascino e soprattutto senza aver trovato delle politiche propositive in grado di risultare convincenti. Quanto al cosiddetto Centro è al momento bloccato sui due personalismi di Renzi e Calenda. È curioso che in nessuno di questi due partiti si sia riusciti a far emergere almeno alcuni personaggi capaci di fungere da punti di riferimento. Quei pochi che mandano nei talk show nei rari casi in cui i due capi rinunciano a concentrare i riflettori su di loro non risultano convincenti. Alcuni personaggi nell’uno e nell’altro campo che pure possono essere giudicati di buone capacità sono relegati in attività parlamentari o organizzative le quali sfuggono alla percezione del grande pubblico.
Ciò che emerge da questo quadro è che le elezioni europee probabilmente non serviranno a stabilizzare la nostra geografia politica. Per quel che rivelano i sondaggi, le oscillazioni nel consenso a tutti i partiti sono di entità troppo modesta per spodestare gli attuali vertici, ma è altrettanto difficile che servano veramente a consolidarli. Sappiamo che c’è chi pensa che Elly Schlein sarà detronizzata se il PD va sotto il 20%, ma a meno che non ci sia un arretramento di almeno 3-4 punti, o un suo flop clamoroso nel caso di candidature in prima persona, la nuova struttura di potere che lei ha costruito terrà almeno per un po’ di tempo. Altrettanto ci sembra complesso che la Lega abbia un risultato così catastrofico da consentire ai suoi avversari interni di detronizzare il suo Capitano.
Quanto a Meloni e a Conte sono in una botte di ferro. La premier vedrà comunque un buon risultato suo e se come pare certo sarà capolista in tutte le circoscrizioni otterrà un successo sufficiente a consolidarla nel suo ruolo. Il leader dei Cinque Stelle si guarda bene dall’esporsi nella partita elettorale, e gioca sul sicuro perché sostiene di non essere interessato a raccogliere plebisciti. Del resto non si vede proprio chi in M5S possa ambire a sostituirlo nel ruolo guida.
Ciò significa che la guerriglia dentro i partiti continuerà, agevolata dalle continue occasioni elettorali a livello di comuni e di regioni: contesti che costringono tutti a cercare di stare in coalizioni e dunque a non forzare impegnandosi in nuovi duelli.
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