Un velo male indossato ed è stato l’inizio della fine per la giovanissima Mahsa Amini. Arrestata brutalmente dalla “polizia morale” è morta dopo qualche giorno nelle carceri del regime. Parliamo naturalmente dell’Iran, una teocrazia barbara, disumana e impenetrabile. Come in occasioni precedenti, nel 2009 e nel 2019, anche in questi giorni è nata una grande protesta popolare, guidata soprattutto dalle donne e dai giovani universitari, che hanno chiamato alla mobilitazione attraverso i pochi social ancora attivi. Ciò che ne è seguito è stata la replica delle esperienze passate: una repressione violenta da parte dei guardiani della rivoluzione e delle squadracce dei Basji, specializzate nell’affrontare con l’uso delle armi le manifestazioni non autorizzate. Il numero delle vittime ha continuato a crescere in modo esponenziale. A cadere sotto i colpi delle milizie è stato anche uno dei simboli della rivolta, che aveva postato i capelli raccolti in una coda di cavallo sui social in segno di sfida: la giovane Hadis Najafi crollata sotto ben sei colpi di pistola, un fatto di violenza inaudita e inspiegabile. Non sappiamo ancora come evolverà la situazione e quanto profondo ed esteso sarà il movimento di protesta “delle donne e per le donne”, anche perché gli Ayatollah al potere hanno deciso di bloccare tutti i sistemi social ancora funzionanti, necessari per mantenere in vita la rivolta contro il potere.
Questa nuova ondata di “guerra civile” ha tuttavia riportato l’attenzione del mondo sull’Iran e sul suo ruolo in Medio Oriente. Vi è un aspetto, nella morte violenta di Mahsa Amini che non è stato messo bene in rilievo: la ragazza era di origine curda e per di più di religione sunnita. Per uno stato guida nel campo sciita e con al nord del paese una forte e problematica minoranza curda, la sfida etnico-confessionale di una giovane curda-sunnita era da reprimere immediatamente.
Il tema del velo sul capo delle donne non è quindi altro che uno strumento di natura ideologica su cui si fonda il potere della Guida Suprema, Ali Khamenei, e che sottolinea l’identità sciita dell’Iran in una regione, il Medio Oriente, largamente dominato dai nemici arabo-sunniti, a cominciare dall’Arabia Saudita. La stabilità interna del paese è quindi essenziale per Teheran, impegnata a proiettare la sua influenza nella regione mediorientale.
Lo ha fatto in questi anni alleandosi con il nuovo governo sciita in Iraq, sopravvenuto (per mano americana) al regime sunnita di Saddam Hussein. Ha contribuito a mantenere al potere il presidente siriano Bashar al-Assad, rappresentante di una minoranza sciita. Ha continuato a sostenere i nemici mortali di Israele, gli Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza, anch’essi della stessa confessione. Sostiene poi militarmente i gruppi sciiti nello Yemen, da anni insanguinato da una crudele guerra civile. Insomma, gli Ayatollah iraniani non possono permettersi l’indebolimento del proprio dominio interno per non compromettere la loro strategia di penetrazione nel mondo arabo.
Tuttavia per il governo di Teheran, guidato dall’ultra-conservatore Ibrahim Raisi, non si tratta solo di tenere sotto controllo le minoranze etnico-confessionali ostili al regime. Il compito di mantenere l’ordine è infatti reso ancora più difficile da altri fattori, fra cui la crescente povertà nella popolazione con circa 25 milioni di iraniani sotto la soglia di povertà, il tutto accompagnato da un’inflazione galoppante, oltre il 50%.
Il malcontento popolare si innesta quindi sulle proteste dei giovani che combattono per una maggiore libertà e per l’affievolimento dei simbolismi religiosi così cari al regime. Per un paese ricco di petrolio come l’Iran, questo prolungato stato di sofferenza economica è in gran parte il frutto delle durissime sanzioni varate dagli Stati Uniti, ancora ai tempi in cui Donald Trump aveva fatto saltare l’accordo internazionale sul controllo dell’industria e delle centrati nucleari in Iran. Una iattura per noi europei che speravamo, attraverso l’accordo, di riportare il regime di Teheran ad una maggiore moderazione, accompagnata da un sistema di controlli e di cooperazione che ne avrebbero affievolito la carica eversiva.
Oggi quindi europei e americani si trovano in uno stato di grande difficoltà di fronte alle violente repressioni della protesta popolare. A parte una generica condanna delle violenze del regime, mancano strumenti e politiche per potere intervenire in favore dei giovani che protestano. Anzi ogni mossa più concreta, ad esempio nuove sanzioni, può contribuire all’aggravamento della repressione interna.
Per il governo di Raisi sarebbe infatti assai conveniente denunciare le interferenze esterne (già lo sta facendo) e sollevare in quella parte della popolazione ancora allineata con il regime l’altro argomento ideologico di sempre: Morte all’America, che assieme a Morte ad Israele, hanno aiutato il regime a sopravvivere alle proteste e alle difficoltà interne del passato.
Meglio quindi per l’Occidente muoversi con cautela e sperare che le sanzioni economiche e la prospettiva di ripresa di negoziati sul nucleare conducano l’attuale regime a moderare l’uso indiscriminato della violenza.
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