Il Ruanda, insieme al vicino Burundi – Centrafrica – è stato teatro nel 1994 di un vero e proprio genocidio, quando furono macellati milioni di persone uccise nel modo più barbaro e indiscriminato per il solo fatto, nella maggioranza delle volte, di appartenere ad una determinata etnia. Quelle in lotta fratricida erano in quel periodo l’etnia degli hutu e l’etnia dei tutsi. L’una minoritaria ma con in mano le leve del potere, l’altra maggioritaria e deprivata di diritti e possibilità. Gli orrori però riguardarono tutti senza esclusione di colpi e le notizie che arrivavano da noi erano incerte, frammentarie, lacunose. Una coltre di silenzio coprì i delitti di massa. Se ne parlò pochissimo salvo quando il massacro –i massacri: estesi, dilatati, orribili- le carneficine immani per quantità e “qualità” erano stati compiuti.
Oggi il Ruanda è governato dallo stesso leader politico, Paul Kagame, presidente con qualche breve interruzione dal 1994, sempre là, inossidabile, inamovibile ed è facile immaginare i mezzi usati e le strategie per mantenere il potere, la sistematica eliminazione di ogni opposizione politica e sociale, la paura come metodo di lotta politica. La novità degli ultimi mesi è il ruolo sempre più importante – e decisivo a questo punto – che stanno prendendo le donne in Ruanda. A cominciare da Diane Rwigara, 37 anni, principale figura dell’opposizione, incarcerata l’anno scorso per sedizione insieme alla madre e liberata non molto tempo fa. Un giudice ha ordinato la scarcerazione su cauzione. La giovane donna che non potrà lasciare la capitale Kigali ha commentato che continuerà il suo “viaggio politico”, dimostrando un coraggio non comune. Non è la sola a quanto pare nel Ruanda che dopo il genocidio ha faticato a “lavare” tutto il sangue che ovunque era stato sparso.
Occorre osservare che oggi il Ruanda annovera nel suo Parlamento il più alto numero di donne dell’intero continente africano. Bisogna riconoscere a Kagame la non comune abilità politica di mostrare il pugno di ferro e al contempo consentire che la società civile esprima la propria vivacità. Vivacità e presenza che in questo momento storico non manca di certo. Diverse donne –artiste e intellettuali, scrittrici- sono rientrate in Ruanda dall’Europa e dagli Stati Uniti, dalla stessa Africa. Agnès Gyr-Ukunda che aveva visto i massacri della sua gente dalla Svizzera, è tornata in Ruanda e sta promuovendo una raccolta di storie e di esperienze letterarie, anche le più minute, per contribuire a far circolare idee e cultura. La tradizione “letteraria” ruandese è quasi esclusivamente di tipo orale, se non vi è un filo per tramandare storie e sapienza popolare il rischio è che vada tutto perduto. Carole Karemera ha 43 anni, è attrice e sceneggiatrice, è nata e ha studiato in Belgio e ad un certo punto ha sentito l’esigenza di ritornare nel paese dei suoi genitori. Anche per lei tutto ha avuto inizio dai libri. “Ho visto che una mia cugina leggeva sempre lo stesso libro, l’unico che possedeva.” Ha pensato allora che doveva fare qualcosa. Ha fondato una ong col preciso intento di dare la possibilità a chi volesse istruirsi di farlo. Ora col suo pulmino noleggiato percorre, insieme ad altre donne, le colline e distribuisce libri e constata che a richiederli di più sono le donne, le ragazze e le bambine che si dimostrano curiose e con tanta volontà di apprendere e istruirsi.
Didacienne Mibagwire aveva 7 anni quando c’è stato il genocidio, ha perso molti familiari tra cui sua madre. E’ entrata in una compagnia teatrale la Never Again Rwanda che lavora principalmente coi bambini orfani ma pure con i giovani che da bambini erano stati spinti ad essere autori di stragi, un lavoro terapeutico individuale e di gruppo per elaborare i lutti e spingere alla speranza. La compagnia teatrale dà lavoro a una cinquantina di persone. Aline Kabanda è cresciuta in Congo e oggi dirige l’Akilah Institute una scuola superiore di alto livello frequentato attualmente da quasi un migliaio di alunne. “Accanto alle varie discipline, offriamo seminari di autostima, fiducia e motivazione”, osserva. Ed aggiunge: “ Alle ragazze chiediamo quali sono le esigenze delle loro comunità e cerchiamo di insegnare a loro come soddisfarle”. Clémentine Dusabejambo è regista cinematografica. Ha 30 anni. Proviene da una famiglia “mista”, hutu e tutsi. Il suo film Lyiza –una storia sulla vicenda del genocidio- è stato premiato in America e ora cerca di cimentarsi in Ruanda dove è la prima volta che esistono registe che sono orientate al un cinema e nel suo caso al cinema di tipo “neorealista”. Marie-Aimèe Umugeni è presidente di una cooperativa che dà lavoro alle donne perché possano “guadagnarsi da vivere, aumentare l’autostima in loro stesse, uscire dalla dipendenza e diventare autonome”. Infine Jeanne Mwiliriza che è scampata al genocidio per una sorte del caso e ha creato una struttura che accoglie le donne vittime di violenza dei loro mariti. Attualmente vi trovano rifugio in 318. Aiuti da alcune ong occidentali, corsi di cucito e reciproca vicinanza, piano piano queste donne ricominciano a riprendere fiducia nella vita. Molte hanno anche i loro bambini con sé.
Forse il nuovo Ruanda ricomincia dalle donne più giovani, molto intraprendenti e coraggiose.
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