Cave, competizione e controlli

La governance, le “seconde lavorazioni” e le condizioni di lavoro sono diventati nodi cruciali da sciogliere per il rilancio del sistema

La prima legge provinciale promulgata nel 2017 riscrive, dopo un decennio, le regole per la gestione delle 150 cave trentine, delle quali 90 di porfido, un «talento» donato al Trentino dalla natura, ma non sfruttato nel modo migliore. Una profonda crisi ha messo il settore in ginocchio, dimezzandone gli addetti, ridottisi negli ultimi quindici anni a meno di 700 (830 contando anche gli extraporfido). Una crisi in cui annaspa un insieme poco innovativo di piccole imprese (8,5 addetti in media), non molto propense ad aggregarsi e troppo inclini, o costrette, a competere sul prezzo a danno della qualità. La governance, le «seconde lavorazioni» e le condizioni di lavoro sono diventati nodi cruciali da sciogliere per il rilancio del sistema.

La nuova legge confida nelle gestioni associate dei Comuni, ma anche in un più forte ruolo di stimolo e di controllo della Giunta provinciale, cui affida una serie di strumenti potenziati: il disciplinare-tipo di concessione, il bando-tipo di gara per il porfido (che prevede di valutare anche la qualità del concorrente e l’occupazione), i criteri per i nuovi lotti, più grandi degli attuali (macrolotti), il programma dei controlli ambientali, minerari, sanitari e retributivo-contributivi, per finire con il rilancio del Distretto del porfido e della pietra trentina. Ma il vero «strappo» con le cattive abitudini del passato sono i vincoli alle seconde lavorazioni, quelle, per capirci, con cui si passa dal materiale semilavorato (il «grezzo») ai prodotti per l’edilizia (cubetti, binderi, piastrelle). Si stima che oggi i cavatori lavorino non più della metà del grezzo; il resto è ceduto ad altre aziende, in genere poco strutturate, con alta natimortalità e vari aspetti critici, specie rispetto alla qualità del lavoro. La nuova legge impone perciò alle ditte con cava pubblica di lavorare una parte consistente del grezzo con propri dipendenti, a regime non meno dell’80 per cento. Della parte ceduta a terzi, quindi il 20 per cento massimo, va data comunicazione al comune, per consentirne la tracciabilità, e quindi controlli più efficaci, anche grazie all’obbligo di pesatura dei materiali di cava, che rende oggettive le quantità. «Se applicata bene, la nuova legge, con i macrolotti e le tre regole sulle seconde lavorazioni (80-20, pesatura e tracciabilità del grezzo) sarà una vera rivoluzione, che può far ripartire il settore» afferma l’ing. Alessandro Tomasi, dirigente del Servizio minerario, in genere poco incline ai proclami.

In effetti la nuova legge usa «medicine» forti; mette robusti paletti all’autonomia dei comuni e all’organizzazione dei cavatori, ma soprattutto rende praticabile l’obiettivo principale della legge del 2006: l’apertura del sistema estrattivo a nuove energie imprenditoriali. Taluni, sbrigativamente, definiscono quella legge «fallita»: in realtà la misura più dirompente, cioè la messa all’asta dei rinnovi delle concessioni in essere, non è stata di fatto ancora applicata, perché è in corso il lungo periodo transitorio. Ma quella misura è il germe della rinascita: le cave pubbliche, che dal 1980 sono in mano alle stesse imprese, fra qualche tempo saranno riassegnate con procedura competitiva. Non è detto che ciò sarà risolutivo, ma sarà comunque una sferzata benefica, visto che il regime delle concessioni bloccate, alla lunga, non si è rivelato per niente salutare. Come ogni forma antistorica di protezionismo.

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