Non si era lasciata intimorire. Carmela Morlino aveva trovato il coraggio di denunciare i maltrattamenti, le ripetute minacce verbali e vessazioni che lei e i suoi figli erano costretti a subire. Si era rivolta ai carabinieri, al centro AntiViolenza di Trento e ad un avvocato, era seguita dai servizi sociali. La giustizia si era mossa tempestivamente con la misura dell’allontanamento dalla casa, più volte violata dall’uomo, tant'è che la Procura aveva chiesto gli arresti domiciliari, revocati il 12 febbraio scorso a fronte del percorso di recupero intrapreso dall’ex marito. Il 22 aprile in Tribunale a Trento ci sarebbe stata l’udienza per la separazione. Un ravvedimento apparente quello di Marco Quarta, che, esattamente 30 giorni dopo la revoca, ha messo in atto la sua minaccia di morte. Avrebbe preparato con cura il suo piano omicida, facendo perdere le proprie tracce a bordo di una Dacia Duster colore marrone.
Una tragedia difficile da accettare. Accanto al dolore atroce, è il sapore di impotenza, di frustrazione, di rabbia e di solitudine quello che rimane in bocca. Perché non sono bastate le denunce? Ci sono stati errori di valutazione? La legge è troppo garantista?
«Non sempre si riesce ad evitare la tragedia, talvolta dobbiamo fare i conti con i limiti e la possibilità del fallimento», interviene Sandra Dorigotti, presidente di Alfid. L’ Associazione laica famiglie in difficoltà fa parte della rete attiva per contrastare la violenza contro le donne. Da anni accoglie e accompagna circa una cinquantina di donne che hanno subito violenza. “Con interventi mirati alle singole situazioni – precisa Dorigotti – percorsi di sostegno e di protezione per le donne, di accompagnamento dei figli, percorsi sperimentali orientati al cambiamento degli uomini maltrattanti”. Uomini che faticano a riconoscere di essere violenti. “Ad accettare il rifiuto di una donna – prosegue – alla loro idea di possesso e di controllo, un’idea troppo a lungo legittimata dalla cultura dominante, da contrastare anche con un’educazione dei sentimenti. E’ doveroso saper riconoscere la verità delle parole delle donne, ma anche intercettare il disagio e la sofferenza che si insedia nella mente e nelle emozioni dell’uomo violento, per frenare e rielaborare la tensione che parte da lontano”. Le recenti leggi contro la violenza sulle donne, del 2010 quella provinciale e del 2013 quella nazionale, il lavoro di formazione assunto da soggetti pubblici e del privato sociale spesso hanno saputo dare risposte efficaci. “Penso ad interventi di protezione, alla segnalazione di chi assiste alla violenza, prima non prevista, – precisa Dorigotti – alla valutazione di rischio di recidiva con il metodo SARA. Tutti strumenti attivati anche nel caso di Zivignago”. Eppure l’esito è stato tragico. “Mai arrendersi. La denuncia è il primo passo per riacquistare la propria libertà interiore – conclude Sandra Dorigotti – ma non è risolutiva. Siamo tutti investiti dalla responsabilità di riconoscere la violenza come problema sociale e culturale, anche quando ci pare di non vederlo perché racchiuso nel luogo più intimo della famiglia. Servono interventi condivisi, non solo tra gli operatori, per creare una robusta rete di protezione che dia più sicurezza alle persone coinvolte”.
Perché la violenza spesso veste gli abiti del “bravo ragazzo”.
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