Alla vigilia dell’anniversario dell’inizio dell’esodo albanese, la testimonianza di tre migranti accolti in Trentino alla caserma “Degol” di Strigno: “Davvero, la nostra fu un’odissea della speranza”
Trento, 2 marzo 1991 – “Quando abbiamo chiuso la porta di casa, a Durazzo, ho provato un groppo alla gola e una stretta al cuore, perché non ero sola a partire: con me lasciavano l'Albania mio marito, i miei figli e le mie figlie, tutta la famiglia di mio marito… chiudere quella porta e partire è stato molto pesante”. Appena Leonora Zefi, anima dell'associazione delle donne albanesi “Teuta”, finisce di tradurre le parole della signora Sheqere Rushitaj, nello studio di radio Trentino inBlu cala il silenzio. Il tempo sembra fermarsi. Poi le lancette cominciano a correre all'indietro, per bloccarsi al 6 marzo 1991. Sono passati 24 anni, ma non per la signora Sheqere, non per Demir Hasani, non per Fatmira Demolli che, accogliendo l'invito di Vita Trentina, hanno accettato di raccontarsi, alla vigilia dell'anniversario del loro arrivo in Italia da migranti, sbarcati al porto di Brindisi il 6 marzo 1991.
Quell'anno barche e gommoni di ogni dimensione, carichi di giovani alla disperata ricerca di una nuova opportunità, si avvicinavano alle coste italiane, fuggendo da un paese, l'Albania, in piena crisi sociale, politica ed economica. Il simbolo della memoria storica collettiva che l’Italia ha dell’esodo biblico albanese del 1991 è l’immagine della nave Vlora, stipata fino all’inverosimile di migliaia di profughi che si sporgevano alle murate, appesi alle corde per salire a bordo: tutti in fuga dalla polveriera balcanica del Paese delle Aquile, tutti diretti alla volta della costa pugliese. Era il mese di agosto del 1991.
Ma già alcuni mesi prima, a marzo, le coste pugliesi avevano accolto gruppi di migranti, presto smistati in altre regioni d’Italia. Un contingente di 370 profughi, in Puglia ospitati inizialmente nel paese di Tuturano (“Fummo accolti benissimo”, ricordano con nostalgia, pensando a legami di amicizia che durano ancor oggi), fu messo sul treno, destinazione Strigno, in Valsugana. L’ex caserma “Giuseppe Degol” divenne dal 15 marzo la loro sistemazione “urgente e temporanea”, come da direttive governative.
“La mia prima impressione? Mi sentivo come in prigione”, dice Fatmira Demolli, giovane studentessa, allora. Oggi è moglie e madre. Lavora all’ospedale “S. Chiara” di Trento, dove si è impiegata dopo il diploma ottenuto con grande caparbietà (“Mi sarebbe piaciuto laurearmi, ma i nostri diplomi non erano riconosciuti in Italia, ho dovuto ricominciare tutto daccapo”, dice con una nota di rimpianto). “Il viaggio in treno, poi la fermata a Strigno. Ero terrorizzata. Ci portano in qualche prigione italiana, pensavo”. “Venivamo da un Paese comunista dove regnava la paura. E la prima impressione, in quella caserma, guardati a vista dai militari, non fu bella. I primi mesi è stata tosta. Poi io e il mio fidanzato abbiamo trovato lavoro, casa, e posso dire che ci è andata bene. Ma, davvero, la nostra fu un’odissea della speranza”, osserva leggendo il titolo del numero ingiallito di Vita Trentina che le mostriamo. E le mani scorrono sugli ingrandimenti delle foto scattate alla “Degol” da Gianni Zotta e Roberto Bernardinatti nei primissimi giorni dopo l’arrivo dei profughi (poi le autorità impedirono qualunque contatto), rallentano sui volti riconosciuti, quasi ad accarezzarli.
“Questa giovane mamma in copertina – dice soffermandosi sulla copia di Vita Trentina con la data del 24 marzo 1991 – la conosco, abita in valle di Non. Siamo rimaste amiche”.
Anche Demir Hasani era giovane ed era studente. “Anch’io, come quasi tutti quelli arrivati a Strigno, ho trovato lavoro (nell’edilizia, ndr), ho messo su famiglia. I miei figli sono nati qua. Mi sento realizzato”. Ma all’arrivo in Trentino fu dura. “Noi non sapevamo niente dell’Italia”, dice. “Ma anche dell’Albania qua in Italia si sapeva poco o niente. E anche i Trentini dell’Albania sapevano poco o niente. Quando passavamo in pullman la gente ci guardava e si chiedeva: chi sono, cosa sono come sono?”. “Erano persone nuove, e noi per loro”, aggiunge Sheqere Rushitaj. Alla curiosità della gente del paese, si aggiungeva quella dei mass media. Passato il clamore mediatico, venne il tempo della quotidianità. “E lì abbiamo cominciato a costruirci la nostra vita”, osserva Hasani. “Guardando queste foto, riconosco molte persone che si sono sistemate in Trentino, quasi tutti, direi. Io stesso, ripeto, mi sento realizzato e fortunato. E guardando queste foto anche emozionato! E’ passato così tanto tempo…”.
Oggi altre persone sbarcano sulle coste italiane, da altri Paesi, da altre latitudini. “Ci penso tutti i giorni – prorompe Fatmira Demolli -, tutti i momenti, provo una grande tristezza e dico che sono più sfortunati di noi albanesi di 25 anni fa. Allora c'erano più possibilità di lavoro, di crescita. Adesso è molto più dura, vediamo le difficoltà per noi stessi, per i nostri figli. E c’è più intolleranza verso gli immigrati”. Approva col capo Demir Hasani: “Il nostro Paese – dico 'nostro' con orgoglio, perché sono cittadino italiano – sta attraversando un momento molto difficile. Ho due figli, uno ha finito gli studi e sta cercando lavoro, con molta difficoltà”.
E' in questa situazione di crisi economica – e non solo economica – che Albanesi e Trentini oggi si guardano, specchiandosi gli uni negli altri, come ha voluto rimarcare l’associazione Teuta intitolando la mostra sull’accoglienza dei primi immigrati albanesi in Trentino che s’inaugura domenica 8 marzo alle 17.30 a Trento nella Sala della Fondazione Caritro “Albanesi e trentini allo specchio”. E’ un ulteriore tassello di un percorso culminato nel 2012 nel progetto di ricerca “Dall’Albania al Trentino. Immigrazione 1991-2011” e ora rilanciato promuovendo, tra il 6 marzo 2015 e il 6 marzo 2016, iniziative che offrono importanti spunti di riflessione sulla valenza sociale della multiculturalità e dell’accoglienza. “In questo specchio si potranno cogliere tanti punti in comune, ma anche i molti aspetti di diversità che però possono costituire un reciproco arricchimento”, conclude Leonora Zefi.
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