Violenza sulle donne e comunicazione. La scrittrice sarda Michela Murgia: “Anche nel linguaggio maturano luoghi comuni e discriminazioni”
Partiamo dalla Giornata contro la violenza sulle donne (celebrata il 25 novembre, ndr): che significato ha questo evento?
Estremamente rilevante, perché esiste un'inclinazione alla negazione, nella nostra cultura, dell'esistenza della violenza: se esiste, è sempre perpetrata da altri, altrove. Il fatto che esista un giorno in cui si è obbligati, almeno per cortesia istituzionale, a parlarne, è l'occasione di raccontare anche a chi non vuol sentire il dramma nascosto di molte donne.
Quello della comunicazione contro la violenza sulle donne è un tema delicato. Lei stessa ha raccontato di essere entrata spesso in polemica con i pubblicitari e gli enti istituzionali che, pur animati da buone intenzioni, ottenevano esattamente il contrario dell'effetto cercato.
È molto difficile uscire dalla tentazione di rappresentare la donna abusata in condizione permanente di vittimizzazione: fragile, bisognosa di protezione, sottratta all'uomo che la abusa e messa in mano alle istituzioni come soggetto passivo, mai capace di decidere della sua vita. L'istituzionalizzazione dell'immagine della vittima richiede e sostiene quella del carnefice. Mi piace sostenere progetti come quello di “Falena blu”, che invece propongono un contro-linguaggio, cioè l'acquisizione di un potere, attraverso l'arte, della consapevolezza della propria storia. Prima di farsi salvare, le donne devono cominciare a pensarsi salvate; da sé, prima di tutto, e poi dopo dalle istituzioni che devono chiaramente garantire le vie d'uscita dalle situazioni dei violenza.
Dunque da cosa cominciare per promuovere correttamente un messaggio contro la violenza sulle donne?
Innanzi tutto dalle donne stesse. Uno dei percorsi più interessanti sul tema del linguaggio in questi anni è stato l'esperienza di “One billion rising”: l'utilizzo della danza e dell'espressione corporea come messaggio positivo di forza e di controllo del proprio corpo, che distrugge completamente l'iconografia della vittima. Io non vorrei più vedere nei centri antiviolenza manifesti di promozione dello sportello fatti con donne con gli occhi neri. È un'estetizzazione del vittimismo della violenza che è inaccettabile, convince le donne che non sia possibile uscire da quella cornice.
C'è anche una “responsabilità” femminile, mi consenta la provocazione, nell'incapacità di smarcarsi da questa immagine?
C'è una responsabilità culturale: la mentalità maschilista appartiene agli uomini quanto alle donne, è un modello sociale e culturale. È vero che è molto difficile convincere le donne a guardarsi con occhi diversi, quando tutto il linguaggio intorno a loro, da quello pubblicitario a quello religioso, continua a dirgli che lo stereotipo è l'unica modalità di espressione che hanno della loro femminilità. Credo che la responsabilità sia un po' di tutti, anche di un certo linguaggio comune, “da bar”, fatto di frasi fatte. Quando tu dici che la donna è preda e l'uomo è cacciatore, stai associando la seduzione con la morte, dimenticando che il cacciatore insegue la preda per spararle.
La Commissione Pari opportunità sta lavorando a livello locale con i media per una comunicazione corretta e rispettosa del genere, a partire dalla declinazione al femminile di termini come ministra, assessora… Lei nei suoi libri si è posta questa preoccupazione?
Non me lo sono sempre posta ma me lo pongo sempre di più, perché mi rendo conto che femminilizzare i ruoli di potere legittima l'idea che le donne possano avere potere. Attraverso il linguaggio inconsciamente passa una pedagogia dell'uguaglianza che non riusciamo a far passare in nessun'altra maniera. All'inizio ci potrà sembrare ridicolo dire “la medica” o “l'avvocata”, ma credo sia una delle strade da cui dobbiamo passare per decolonizzare il nostro immaginario.
A cura di Piergiorgio Franceschini
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