Non serviva certo la tragedia di Caldes per mettere in evidenza i limiti dei social network, per comprendere gli effetti che essi hanno sulla formazione della pubblica opinione e, non ultimo, per intravvedere non solo i sintomi, ma anche le cause, della loro (annunciata) crisi. La terribile morte di Andrea Papi, aggredito e ucciso da un’orsa durante una corsa nei boschi del monte Peller, ha infatti esasperato nei social network, le tendenze manipolatrici e ne ha reso evidenti tutte le contraddizioni e gli effetti più negativi: meccanismi perversi, incontrollati e incontrollabili.
Chi ha seguito i social in queste settimane ha avuto chiara l’dea di cosa voglia dire quando tutti, ma proprio tutti, possono dire la loro su una particolare situazione. “Un tipo (eufemismo, n.d.r.) decide di fare una corsetta in un bosco popolato da orsi. Vede un’orsa, la colpisce e lei da buona mamma difende i suoi cuccioli ed aggredisce a sua volta. Il tipo muore…L’orsa viene tacciata di aggressività, catturata e in attesa di verdetto. Ma io dico, è normale?”. Centinaia, migliaia di post: “Un tipo (anche in questo caso, si preferisce non usare il termine originale) va a correre dove vivono gli orsi, come se non avesse già abbastanza spazio in quanto umano…”.
Nell’epoca dei social, tutti possono scrivere e tutti possono commentare. Leoni della tastiera (quelli che aggrediscono sempre e comunque) o sprovveduti che rientrano a pieno titolo nella famosa citazione di Umberto Eco: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Non è però solo “questione di imbecilli”. Soprattutto quando si parla di Facebook che non è solo il social più importante (per diffusione globale), ma anche il più significativo nel campo dell’informazione e della capacità di indirizzare l’opinione pubblica.
Secondo il rapporto 2022 del Censis, Facebook si conferma al secondo posto tra gli strumenti più usati dagli italiani come fonte di informazione: il 35,2 per cento afferma di usare il social network per informarsi (più 5 per cento rispetto all’anno precedente,) preceduto solo dalla televisione (51,2 per cento, meno 8,9 per cento rispetto al 2021). Per avere un’idea, basti dire che i giornali cartacei sono solo al 7,8 per cento e quelli online al 14,3 per cento. Ma Facebook non è solo uno strumento di comunicazione, è al tempo stesso un sistema che ha modificato il processo di rappresentazione della realtà, ha imposto nuovi paradigmi alle narrazioni.
I post su Facebook rendono evidente cosa significhi parcellizzare la realtà, farla a pezzettini dove ciascuno può prendere quello che più gli aggrada; diventa chiaro il meccanismo – tipico proprio del social network di Mark Zuckerberg – di semplificare le situazioni (all’eccesso, sino a banalizzarle) per favorire una progressiva polarizzazione delle posizioni; è divenuto persino insopportabile l’effetto di cancellare parte della realtà per focalizzare solo su alcuni aspetti (decontestualizzati) il confronto/scontro tra tifoserie che è il vero obiettivo (in termini di clic, di vantaggi pubblicitari, di profitto) di chi gestisce i social.
Tutto questo, non è certo una novità: Frances Haugen, una delle persone per anni ai vertici di Facebook, lo ha spiegato anche alla Commissione del Congresso americano. “Facebook amplifica il peggio degli esseri umani – ha dichiarato – e questo atteggiamento si è allargato a Instagram. Avevano pensato che se avessero cambiato gli algoritmi per rendere il sistema più sicuro, la gente avrebbe speso meno tempo sui social, avrebbero cliccato meno le inserzioni pubblicitarie e Facebook avrebbe fatto meno soldi”.
Da quattro settimane, politici, rappresentanti di associazioni, influencer ed attori, esperti (talvolta solo presunti), studiosi di ogni campo, stanno dicendo la loro. I primi effetti dello “schema Facebook” sono però evidenti: ormai tutto si concentra sulla bagarre “salviamo l’orsa/rimuoviamo gli orsi”, con il paradosso che tutti conoscono il nome dell’animale, ma quasi nessuno (se si esclude il territorio trentino) ricorda il nome di Andrea Papi. Anzi, il dibattito sembra proprio dimenticare ciò che è successo tra i boschi del monte Peller: la morte di un ragazzo di 26 anni.
Arrivata al Casteller per controllare come stanno gli orsi, una deputata del Parlamento italiano, ha postato un video di cinque minuti in cui racconta come vengono gestiti gli animali, rassicura sul comportamento dei forestali, si sofferma sulle condizioni di M49 e poi – senza una sola parola per ricordare il contesto da cui la vicenda nasce – promette a JJ4 il massimo impegno per riportarla in libertà. “Anche se stavolta l’hai fatta davvero grossa”, aggiunge.
Come si direbbe ad un soggetto che ormai ha una dimensione tutta sua, che prescinde dalla tragedia. E nemmeno la pubblicità si fa scrupoli: il tema è l’orso, è solo l’orso. La vittima è “uscita dalla narrazione”. Così, accanto ad una grande foto di un plantigrado nel bosco (JJ4? Daniza? Jurka?) ecco il sollecito di una delle principali ditte di macchine fotografiche: “Esci dal letargo, cogli l’attimo”. Come minimo, una frase infelice.
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