Con la vittoria di Donald Trump si conferma l’involuzione del mondo da sistema aperto ad insieme sempre più chiuso. Alla grande globalizzazione dell’economia, della finanza e della tecnologia subentra la forte tentazione verso l’autarchia e la chiusura dei confini. Tariffe, dazi, disprezzo per le regole del diritto internazionale, e non solo, sono state le parole chiave della campagna elettorale del Tycoon americano e del suo entourage. Ne emerge un’America sempre più tentata dall’isolazionismo e da un nazionalismo esasperato che nelle promesse di Trump si spinge addirittura alla “deportazione” di milioni di sudamericani entrati clandestinamente dal Messico.
Parole e proposte che non sentivamo più dalla fine della Seconda guerra mondiale. Eppure, il popolo americano ha premiato questa impostazione ideologica estrema che sta diffondendosi impetuosamente nel resto del mondo e perfino nella nostra Europa. In effetti, a dimostrare grande soddisfazione della nuova vittoria di Donald Trump sono i paesi autoritari e illiberali, dalla Russia alla Turchia, dalla Cina al Venezuela. All’interno dell’Unione europea festeggiano i vari Orbàn e i partiti nazionalisti e sovranisti che sono accomunati dallo stesso disprezzo nei confronti dell’attuale UE e dei suoi tentativi per porre un argine all’influenza aggressiva di Vladimir Putin ad Est ed oggi anche ai rischi insiti nella politica estera degli Usa ad Ovest. Ha fatto una certa impressione la presenza ai festeggiamenti per la vittoria di Trump di Nigel Farage, l’uomo politico inglese il cui unico merito è quello di avere combattuto con successo per portare Londra alla Brexit, arrecando un enorme danno all’immagine dell’UE e alla sua supposta “irreversibilità”.
Non è solo il contenuto della campagna elettorale di Trump a preoccupare Bruxelles, ma il fatto di averlo già sperimentato nei quattro anni prima di Joe Biden. L’uomo non è per nulla cambiato: è certamente più vecchio ma anche colmo di spirito di vendetta non solo verso i suoi nemici interni ma anche con quella parte del mondo che ha fortemente sperato di non rivederlo nella stessa posizione di potere. Il timore dell’UE è certamente ben fondato. Ogni futura decisione di Trump in politica estera eserciterà profondi effetti sulle nostre politiche e decisioni. Dalla battaglia climatica dove è probabile che il presidente americano riconfermi la sua volontà di uscire dall’accordo di Parigi al commercio intra atlantico con l’imposizione di dazi già annunciati dal 10 al 20%. Dallo sfruttamento intensivo delle fonti energetiche fossili americane e il conseguente aumento del potenziale competitivo dell’industria statunitense alla battaglia contro le importazioni di automobili europee ed in particolare tedesche (con indiretti vantaggi per il suo sodale Elon Musk).
Soprattutto Trump non ama l’UE e i tentativi di maggiore integrazione che essa ha fatto negli ultimi decenni, dall’Euro alla libera circolazione di Schengen. Possiamo essere certi che, come nella precedente esperienza di governo, il presidente americano adotterà politiche strettamente bilaterali con i singoli stati membri saltando a piè pari Bruxelles. Il “divide ed impera” è nelle sue corde di vecchio imprenditore che vuole ottenere vantaggi consistenti da ciascuno dei suoi interlocutori. Troverà oggi il terreno spianato essenzialmente per due ragioni. La prima è che sia Francia che Germania vivono una profonda crisi politica interna e che la loro credibilità anche internazionale è ai minimi storici. La seconda ragione è che all’interno della stessa UE il nuovo presidente gode di grandi ammiratori a cominciare dall’Ungheria alla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca e in qualche misura anche dall’Italia. Questi paesi e le forze di destra estrema sparse per tutta l’Unione hanno un solo elemento in comune: la critica verso Bruxelles e l’attuale assetto comunitario. In altre parole, Trump ha molti alleati pronti ad assecondare il suo euroscetticismo. In ciò la politica della futura amministrazione americana non è molto dissimile da quella di Vladimir Putin che sostiene senza nasconderlo le forze nazionaliste e sovraniste nei paesi dell’Unione allo scopo di indebolirla o almeno di ostacolarne eventuali progressi. Fra i quali, occorre ricordarlo, anche l’impegno dell’UE ad accelerare l’adesione dell’Ucraina e degli altri paesi ex-sovietici, che secondo lo zar del Cremlino devono rimanere strettamente sotto il controllo politico e territoriale di Mosca.
Insomma, si prospettano anni durissimi per l’UE ormai schiacciata fra una Washington riluttante e una Mosca invadente. Due pesi massimi di fronte ad un’Unione che non ha ancora saputo trasformarsi in un vero e proprio attore politico internazionale con una politica estera e di sicurezza condivisa ed efficace. Il classico vaso di coccio tra vasi di ferro. Tempi duri per Bruxelles ma anche una straordinaria opportunità, come diceva Angela Merkel, di rovesciare il piatto e di assumerci la responsabilità di pensare al nostro futuro di grande e autonoma Unione, unico esempio oggi esistente di collaborazione multilaterale in un mondo sempre più multipolare di grandi potenze nazionali con politiche spesso fra loro conflittuali.
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