Trump e Harris, corsa al 270° delegato

Un’immagine dell’unico confronto televisivo tra i due candidati presidenti

Chissà se Al Gore sarebbe stato un buon presidente. Chissà come sarebbero andate le cose nel mondo se fosse stato lui, ventiquattro anni fa, il nuovo inquilino della Casa Bianca. Non lo sapremo mai, ovviamente, perché colui che era stato per otto anni il vice di Bill Clinton dovette cedere il passo a George W. Bush, figlio di George Bush Sr. – ricordato per l’appunto come “Bush padre” – che dopo un solo mandato venne sconfitto, nel 1992, proprio dalla coppia Clinton-Gore.

A quattro settimane dal voto per il nuovo presidente degli Stati Uniti, la vicenda di Al Gore ci ricorda innanzitutto che il sistema americano non prevede l’elezione diretta del “Comandante in capo”. È certamente un sistema presidenziale, ma ad eleggere il presidente non sono i cittadini, ma i delegati espressi con il voto popolare. Se ci fosse l’elezione diretta, nel 2000 avrebbe vinto chiaramente Al Gore e, nel 2016, Hillary Clinton (con 4 milioni di voti in più) non sarebbe stata sconfitta da Donald Trump.

A fare la differenza, in entrambi i casi, era stata proprio l’“elezione indiretta” attraverso i delegati che ognuno dei cinquanta stati indica per votare il nuovo presidente. Ogni Stato esprime un numero di “grandi elettori” rapportato alla propria popolazione: la California esprime 54 delegati, gli stati più piccoli solo tre. Complessivamente, 538 delegati. Viene eletto presidente, il candidato che ottiene la fiducia della metà più uno: ecco perché 270 sarà il “numero magico” che sentiremo continuamente citare nei prossimi giorni.

I “grandi elettori” vengono eletti in ciascuno dei cinquanta stati la regola che il candidato che vince, anche con un solo voto di vantaggio, si aggiudica tutti i delegati. Per gli aspiranti alla Casa Bianca, dunque, l’obiettivo non è quello di avere più voti a livello generale, né di vincere nel maggior numero di stati, ma di conquistare soprattutto quelli più grandi, quello con il maggior numero di delegati.

Nella gran parte degli stati, non c’è partita, sappiamo già chi vince. Nessuno mette in dubbio che la California sarà “conquistata” dai democratici, così come nessuno ritiene possibile che i repubblicani possano perdere l’Alabama. Stando così le cose, Kamala Harris parte con un paniere di 226 delegati, Donald Trump con 219. Bisogna però arrivare a 270 ed è nei sette stati oggi ritenuti “incerti” che si concentra la campagna elettorale che passerà alla storia per essere la più costosa di sempre: presenze, comizi, spot televisivi e soprattutto un’azione di informazione e disinformazione sui social. Michigan (10 voti elettorali), Wisconsin (15), Pennsylvania (19), Georgia (16), Carolina del Nord (16), Arizona (11) e Nevada (6) sono dunque il terreno di caccia per le presidenziali di novembre.

La notte del 5 novembre saranno le proiezioni di voto in questi sette Stati a dirci chi sarà il nuovo inquilino (o inquilina) della Casa Bianca. Prima ancora di avere i dati dello spoglio, sono sempre state le tv a “chiamare” uno Stato per l’uno o per l’altro dei candidati. Nelle elezioni del 2000, le televisioni si concentrarono sulla Florida perché – definiti i grandi elettori degli altri Stati – erano proprio quei 27 delegati a consentire ad Al Gore o a Bush figlio di superare la fatidica “soglia 270”. In un primo momento, la vittoria fu “assegnata” ai democratici che iniziarono i festeggiamenti. Poche ore dopo, però, la Florida (dove il governatore, responsabile dei meccanismi elettorali, era Jeb Bush, fratello del candidato repubblicano) cambiò colore. Poche centinaia di voti (537, per la precisione) che per oltre un mese sarebbero stati al centro di una contesa legale e politica. Non ci fu alcun riconteggio manuale delle schede e la contesa arrivò ad un incredibile e pericoloso stallo. Non c’erano i social, ad inizio del Duemila: chissà cosa sarebbe successo se ambedue le parti avessero mobilitato i propri aderenti in una contesa da stadio. Esattamente ciò che fece quattro anni fa Donald Trump, anche se la sua sconfitta era acclarata e confermata. Una protesta fomentata proprio dai social network che portarono al drammatico assalto di Capitol Hill (il Congresso degli Stati Uniti d’America).

Al Gore, il 13 dicembre del 2000, diede dimostrazione di grande responsabilità riconoscendo la vittoria di Bush figlio (e fratello): «Questa sera, per il bene della nostra unità come popolo e della forza della nostra democrazia, riconosco la sconfitta». Ventiquattro anni dopo, guardando proprio all’accentuarsi della polarizzazione provocata dai social e tenendo conto dell’esito incerto dei pronostici, c’è da chiedersi cosa potrebbe succedere se Kamala Harris dovesse davvero avere la meglio su Donald Trump.

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