Quale data potrebbe essere più opportuna del 25 aprile per piantare la vigna dopo il diluvio, che ci proponeva l’editoriale della settimana scorsa? Per farlo, però, c’è da operare una grande bonifica del terreno, che non solo è impaludato – e la vite vuole un terreno ben drenato – ma è pesantemente inquinato.
Sono passati 75 anni dalla fine di una guerra e di una dittatura che hanno letteralmente distrutto il Paese, da ogni punto di vista, e la data che ricorda la conclusione di questo incubo non solo non è divenuta una festa popolare sentita, ma assistiamo addirittura ad un rigurgito di nazi-fascismo che dilaga nelle giovani generazioni e prolifera (incontrastato) nelle formazioni politiche.
C’è una ferita identitaria che segna l’Italia dalle origini e impedisce lo sviluppo di un sano sentimento nazionale, complicata da una struttura caratteriale che nutre il vuoto del proprio ego con il conflitto e la contrapposizione ideologica. Dai guelfi e ghibellini in qua, la storia continua a ripetersi. La scissione ideologica è stata al centro anche della Guerra di Liberazione e ha condizionato la ricostruzione. Si è evitata la guerra civile, ma la contrapposizione non è stata superata. Il sequestro della memoria da parte di una delle parti e l’agiografia manichea della “Resistenza” hanno poi avvelenato le narrazioni e impedito il riconoscimento generale.
C’è dunque bisogno di narrazioni rispettose della complessità e del limite umano, che dicano la luce ma anche l’ombra, che comunichino il senso umano profondo e attuale di quell’esperienza.
Il cinema lo ha fatto fin dalle origini. In particolare lo ha fatto Rossellini con la trilogia della guerra – Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1948) – a cui si deve aggiungere anche Il generale Della Rovere (1956). Che resta nel tempo la pietra di paragone.
Con tutt’altro registro lo ha fatto la saga tragicomica tratta dal Mondo piccolo di Guareschi, che dovrebbe però portare a una lettura più attenta delle storie originali e dello spirito che le anima.
In tempi recenti, invece, mi sembrano due i film da andare a rivedere: I piccoli maestri (1997) che Daniele Luchetti ha tratto dal racconto autobiografico di Luigi Meneghello e L’uomo che verrà di Giorgio Diritti (2010). Il primo mostra il volto antiretorico e fragile dell’esperienza partigiana in cui giovani ventenni, nati e cresciuti nel Fascismo, cercavano riscatto e senso al proprio esistere. Il secondo ricostruisce un capitolo degli eccidi nazisti – quello di Monte Sole nell’Appennino Bolognese, passato impropriamente alla storia come “strage di Marzabotto”, e lo fa tirandosi fuori dalla logica delle parti in guerra, ponendosi dalla parte dei contadini che assistono alla guerra e restano vittime della sua logica feroce: un mondo piccolo ma profondamente umano che va in pezzi, da cui si salva una bambina con il fratellino appena nato alla quale è affidato il compito di far crescere il nuovo.
Ma prima di avvicinare queste pagine forti, forse varrà la pena di partire da una commedia poco conosciuta di Francesco Bruni del 2017, Tutto quello che vuoi, che con mano lieve ma incisiva , attingendo al proprio vissuto biografico familiare, indica non solo l’urgenza di ricucire la memoria e riconciliare le generazioni, ma offre gli strumenti per incominciare a farlo. Restituendo alla cultura e alla poesia il valore e il compito che hanno. In particolare quello di richiamarci alla cura reciproca di cui abbiamo bisogno.
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