Tra grazia e libertà, Bellocchio rilegge il “caso Mortara”

Paolo Pierobon ed Enea Sala in una scena del film

Il Rapito di Marco Bellocchio è un bel film, con una buona sceneggiatura, una bella fotografia e alcuni ottimi attori. La parte migliore è la prima, quella che descrive le drammatiche vicende del giugno 1858, quando la gendarmeria dello Stato pontificio tolse a un padre di famiglia ebreo uno dei suoi figli, un bambino di nemmeno sette anni, in quanto questi era stato segretamente battezzato da una domestica; l’inquisitore (Fabrizio Gifuni) allontanò allora il piccolo Edgardo, definitivamente, da Bologna, allo scopo di farlo crescere cristiano a Roma. Al centro di questa prima parte la coppia composta da Salomone Mortara (Fausto Ruzzo Alesi), padre fiducioso nella giustizia degli uomini e nel fatto che qualcuno avrebbe posto un limite al potere papale; e Marianna Padovani Mortara (Barbara Ronchi), ricolma del sacro furore proprio di una madre ferita, disillusa di fronte ai tentativi del marito (“ci vorrebbe Attila”).

Un poco meno riuscita la seconda parte – si giunge fino alla presa di Roma del 1870, alla morte di Pio IX nel 1878 e oltre – dove le vicende del Mortara giovane e adulto sono scandite da scene più brevi, aperte da didascalie; talvolta della colonna sonora si poteva fare a meno, perché le scene sarebbero state altrettanto forti anche in sua assenza. È il papa qui a diventare co-protagonista: una figura che Paolo Pierobon interpreta in modo tutt’altro che caricaturale, mettendo in luce la sua ferma volontà di difendere oltre ogni convenienza umana, nel caso di Mortara come in altri, le posizioni che giudicava irrinunciabili (“si può perdere tutto, ma non un’anima che Cristo ha conquistato con il suo sangue”).

Il film descrive la triste vicenda, avvenuta in un passato che non è poi così remoto, in modo complessivamente corretto; ci sono semplificazioni e ci si prende delle libertà interpretative quando si entra nei pensieri, nei sogni e negli incubi dei personaggi, ma si tratta di adattamenti inevitabili. Anche la scena finale, con Edgardo che cerca di battezzare la madre morente, probabilmente non appartiene alla verità storica, ma riassume bene il seguito della vita del Mortara, che rimase prete cattolico rinnegando le sue origini ebraiche. Si potrebbe eccepire sul titolo che è stato scelto, perché Edgardo non fu affatto “rapito”, ma invece tolto alla famiglia applicando la legge di uno Stato confessionale, secondo una norma che pretendeva in quel caso lo stravolgimento dei rapporti familiari. Nel complesso, come si è detto, si tratta però di un buon film, meglio riuscito – per citare un altro film di Bellocchio che i trentini potrebbero conoscere – del Vincere che raccontava la storia di Mussolini e Ida Dalser.

Quando la diocesi di Trento tornerà a organizzare corsi per catechisti battesimali, Rapito diventerà non solo occasione di riflessione, ma anche strumento di formazione: il film affronta infatti questioni quali il senso del sacramento dell’iniziazione cristiana, la sua materialità, il rapporto tra grazia e libertà, la distinzione tra comunità di fede e appartenenza civile, la fede stessa nell’amore di Dio per gli uomini. Dio, certamente, può scrivere diritto anche sulle linee storte: ma guai a chi, anche in nome Suo, strappa un bambino dalle braccia dei genitori.

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