Il regista, David Leitch, oggi è uno specialista di film d’azione di Hollywood, ma ha una carriera pregressa come stuntman (ha controfigurato in molti film Brad Pitt, per esempio). “The Fall Guy” è la sua lettera d’amore a questa disciplina e ai suoi professionisti che lavorano nell’ombra senza mai ricevere il dovuto riconoscimento.
Alla base del film, che è anche una commedia, c’è una vecchia serie di culto in auge nei primi anni Ottanta. Si intitolava “Professione pericolo” ed era coeva di, ma slegata da, un altro film molto amato dai cinefili con Peter O’Toole (“The Stunt Man”, conosciuto in Italia, anch’esso, come “Professione pericolo”).
Raccontava di uno stunt man (Lee Majors, famoso per L’uomo da sei milioni di dollari) ingaggiato come cacciatore di taglie, premessa da cui muove anche “The Fall Guy”. Protagonista del film di Leitch è Ryan Gosling che interpreta Colt Seavers, richiestissimo cascatore e controfigura della star del momento Tom Ryder (Aaron Taylor-Johnson). Durante la lavorazione del suo ultimo film, Colt, che sul set si è innamorato dell’assistente alla regia (Emily Blunt), ha un brutto incidente che lo spinge a prendere le distanze dal mondo del cinema (più per una questione di orgoglio personale che per i danni riportati). Due anni dopo viene ricontattato dalla produttrice che lo convince a volare in Australia per salvare il film d’esordio della sua vecchia fiamma, diventata nel frattempo regista, interpretato ancora una volta da Tom Ryder, il quale però è scomparso senza dare spiegazioni.
Da qui in poi “The Fall Guy” alterna alla storia della lavorazione del film sia le indagini di Colt per scoprire dove si è cacciato l’attore sia quella relativa alla love story interrotta tra Colt e la neo-regista che entrambi vorrebbero ricucire, nonostante gli inevitabili imprevisti che si frappongono ai loro tentativi.
Dal punto di vista dell’intrattenimento, il film è divertente e l’alchimia tra Gosling e Blunt, che dopo i rispettivi ruoli in Barbie e Oppenheimer stanno vivendo un momento particolarmente roseo delle loro carriere, funziona molto bene, anche se alla lunga la durata superiore alle due ore si fa sentire. Dal punto di vista dei contenuti, invece, c’è davvero poco. Il cinema deve essere anche svago, per carità, ma in questo caso l’impressione è quella di trovarsi di fronte non solo a un film autoreferenziale di Hollywood, ma a un film di Hollywood intesa come fucina di prodotti di distrazione di massa che per inconsistenza e capillarità risultano assai dannosi sulla consapevolezza sociale, politica e culturale del pubblico.
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