Due occhi bambini, tondi e stupefatti. Il treno del circo deraglia, liberando tigri e giraffe: l’effetto speciale è quel che è – siamo agli albori della tecnologia – ma la scena è esplosiva e resta impressa, indelebile, negli occhi di Sammy Fabelman, 6 anni, per la prima volta al cinema con mum & dad nel 1952 (il film è “Il più grande spettacolo del mondo” di De Mille).
Due occhi stupiti. SSS! Sguardo Steven Spielberg. Che, a 76 anni, conserva l’innocenza americana. Dal volo in cielo di E.T. all’abisso del lager in “Schindler’s List”, lo sguardo resta sorpreso e indagatore. Ingenuo, se volete: non gli ha fruttato la lode dei critici laureati, che vogliono buio, enigmi, grido, più deliri e meno storie.
Ma se il “monte del gioco” inventa “l’uomo delle favole”, una buona storia salta fuori. Non è casuale che Spielberg (il monte del gioco e del recitare, spielen) abbia chiamato Fabelman la sua famiglia, per consegnarla allo schermo. E ci mette la sua faccia barbuta di artigiano, prima dei titoli di testa di “The Fabelmans”, per ringraziarci di essere entrati in un “movie theater” per il suo film più personale. Dove Steven diventa Sam (un credibile Gabriel La Belle), ragazzo ebreo impacciato con le coetanee ma iperdotato per “vedere” le storie degli altri.
È la storia di un ragazzino innamorato delle cineprese ma anche del fare, del produrre, e del montare pezzi di pellicola misteriosa che, poi, incerottati, fanno un film. E Spielberg, che di filmoni ne ha fatti, ha imparato con i filmini: vacanze in famiglia, ingenui western con gli amici, documentari di beach-party scolastici.
“The Fabelmans” è troppo lungo (151’), non è il suo film più bello, (“E.T.” è inarrivabile, extraterrestre di nome e di fatto), ma è poetico e sincero. Non è poco. Frammenti di buio nell’antisemitismo sofferto al college e nelle malinconie della madre pianista ma prevalgono i colori dell’America anni ‘50-’60 e la voglia di raccontarla: lo zio Boris, orso benevolo, e le persone in cerca della felicità che pare un diritto a portata di mano.
Magistrale l’ultima scena, a Hollywood, tra il ragazzo Fabelman e il mito John Ford (interpretato dal regista cult David Lynch). Il maestro di “Ombre rosse” (ombre di rossetto sulla guancia, che l’antica segretaria gli cancella con i kleenex), con la benda sull’occhio come un pirata che, indicandogli le foto alle pareti, gli dà la prima e unica lezione: l’immagine è interessante se la linea dell’orizzonte è sopra oppure sotto; se è in mezzo, è solo una bruttura.
Ci vuole occhio, per fare cinema. E basta un occhio solo, che si incolla al mirino della macchina da presa. L’altro si strizza, si chiude. Si può anche portarlo in giro bendato. Ford ha visto una diligenza inseguita da ombre rosse. Spielberg ha visto Ford. Noi vediamo Spielberg e diciamo: non sarà il monte più alto della settima arte, non sarà Bergman o Buñuel o Kurosawa o Rossellini o Tarkovskij o Kim-Ki-duk. Ma è pur sempre Nuovo Cinema Spielberg, a un passo dal paradiso.
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