Dopo l’Oscar per Birdman, l’anno scorso, il regista messicano Alejandro Iñárritu, quello di Babel e 21 grammi, fa di nuovo il colpaccio con Revenant, girando un film di sorprendente potenza visiva che catapulta lo spettatore nel mezzo della natura incontaminata del South Dakota a inizio Ottocento.
Siamo all’inizio di tutto, prima ancora del “classico” mito del West: l’uomo è parte intrinseca della natura, è come un animale, o come un torrente, e quindi solo chi si armonizza riesce a sopravvivere.
E quest’uomo è Hugh Glass, esperta guida dei cacciatori di pelli nella incontaminata frontiera nordamericana, interpretato da un intenso e trasfigurato Di Caprio, nominato agli Oscar per la quinta volta: che sia la volta buona?
Il film racconta l’epopea di Glass, e i suoi sentimenti puri: come è stato abbandonato dai compagni che credeva amici, e come ha trovato la forza di sopravvivere in cerca di vendetta.
Ma oltre alla narrazione (o forse ancora di più) al regista messicano interessa la visione pura, e tutto il film diventa una vera meraviglia per lo spettatore che quasi in soggettiva compie un’odissea smisurata insieme al protagonista che, in una scena memorabile, viene assalito da un enorme grizzly che lo lascia più morto che vivo. Proprio per questo, il cinico John Fitzgerald, interpretato da un ottimo Tom Hardy, dopo avergli pugnalato a morte il figlio meticcio, lo abbandona in una fossa.
E a questo punto Glass diventa “Revenant”: resuscita da quella fossa, striscia per terra, si rifugia nella carcassa di un cavallo morto, si nutre di pesce crudo e carne di bisonte, incontra indiani guaritori e indiani che praticano lo scalpo e alla fine arriva al campo dei cacciatori di pelli per vendicare il figlio.
L’estro e il virtuosismo di Iñárritu crea un personaggio e un film davvero mitico, fatto tutto di luce naturale: un mito che ingloba e fonde il personaggio con la natura e nello stesso tempo proietta lo spettatore nella carne e nelle ossa di Glass, tanto da fargli percepire persino il respiro che appanna lo schermo. Il delirio della macchina da presa conduce fino alla potente scena del duello finale e al poetico primo piano di Glass/Di Caprio che chiude il film lasciando la vendetta nelle mani della natura, o di Dio.
La natura, l’avidità umana, l’integrazione, l’odio e l’amore, la vendetta: tutti temi viscerali e primordiali che fanno di questo film una vera e propria esperienza.
Assolutamente da vedere.
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