Fanno notizia solo quando servono per mettere paura, quando vengono presentati come una minaccia. Altrimenti, scompaiono. Non esistono. Non rientrano nelle narrazioni dei quotidiani e delle televisioni, men che meno in quelle dei social. Persino quando vincono e sbandierano il tricolore, si esaltano le loro gesta, ma non si raccontano le loro storie che il più delle volte sono comunque raccontate dal colore della pelle.
La nazionale italiana di atletica, che ha mietuto successi ai recenti europei di Roma (e che punta ai traguardi olimpici), è l’emblema della “nuova Italia” sportiva: multietnica e figlia di talenti che, in parecchi casi, hanno dovuto aspettare anni (e affrontare infinite traversie burocratiche) per aver riconosciuta la cittadinanza italiana. E anche quando portano l’Italia sul gradino più alto del podio, sono talvolta accettati a denti stretti. Loro che si dicono orgogliosi di indossare la maglia azzurra.
In Trentino conosciamo bene la storia di Yeman Crippa (oro europeo sui 10 mila metri) nato nell’est dell’Etiopia e cresciuto a Montagne, nelle Giudicarie. Conosciamo bene anche la nuova stella del mezzofondo, Nadia Battocletti, trentina della val di Non, (oro nei 5 mila e nei 10 mila: applaudita ed incoraggiata nel suo arrivo solitario addirittura da Mattarella che poi l’ha voluta incontrare per farle le congratulazioni), papà trentino e mamma del Marocco.
Come loro, tanto per citarne alcuni, anche Chituru Ali, un gigante nero, argento europeo nei 100 metri dietro solo a Marcell Jacobs (olimpionico con padre afroamericano); Zaynad Dosso, nata in Costa d’Avorio, bronzo, anche lei, nei 100 metri; Lorenzo Ndele Simonelli, oro nei 110 ostacoli, mamma della Tanzania; Mattia Furlani, argento nel salto in lungo (con mamma senegalese). Come gli altri atleti delle staffette (oro in quella dei 100, argento in quella dei 400). O l’argento nel salto triplo di Larissa Iapichino, il volto e la grinta di mamma Fiona May.
Un’Italia nuova, diversa, vincente. Così distante dall’altra Italia, più profonda, che emerge attraverso gli insulti sui social (basta chiedere a papà Battocletti per avere conferme) che portano in superficie un Paese al tempo stesso incivile e cattivo.
«Il vostro non è un Paese buono», ha detto, piangendo, Sony, una ragazza di 26 anni che viene dall’India. Lavora nei campi – senza permesso di soggiorno, senza regole, senza diritti – per raccogliere i pomodori a quattro euro l’ora. Suo marito, che lavorava con lei, è morto dissanguato: un macchinario gli ha strappato il braccio. Invece di portarlo in ospedale, il “datore di lavoro”, per non avere rogne, lo ha scaricato davanti a casa, come fanno quelli che si liberano delle immondizie gettando il sacco per strada, sperando di non essere visti. Hanno avuto anche la cortesia di mettergli vicino una cassetta, di quelle usate per i pomodori, con dentro il braccio.
Satman Singh, 33 anni, è morto dopo quarantotto ore di agonia. Al principale telegiornale della sera (che dovrebbe essere servizio pubblico, ma non ha avuto remore a trasmettere parole pregne solo di disumanità) il titolare dell’azienda ha pure aggiunto: “Il lavoratore ha voluto fare di testa sua: una leggerezza che è costata cara a tutti”.
Davvero l’Italia “non è un Paese buono”. Si esalta quando i ragazzi di colore portano in alto il Tricolore, ma se la prende con tutti gli altri, anche se sono quelli che fanno girare l’economia.
Sono centinaia di migliaia, quasi sempre senza permesso di soggiorno. Invisibili. Manodopera da mandare in prima linea nei lavori più faticosi e in quelli più pericolosi.
A Bolzano, nei giorni scorsi, sei operai sono rimasti gravemente feriti in un incidente sul lavoro: tre sono senegalesi, due albanesi e uno tunisino. Uno degli operai senegalesi è morto successivamente in ospedale: Bocar Diallo aveva 31 anni, era arrivato in Italia come profugo e aveva trovato un lavoro stabile nella fabbrica siderurgica. Lavoro che gli italiani non vogliono più fare. Aveva cercato, inutilmente, anche una casa in affitto, ma quella agli immigrati mica la si dà facilmente.
Storie che giornali e social tengono vive solo qualche ora. Poi spariscono. Come la tragica morte di Vitali Mardari, boscaiolo moldavo di 28 anni. Fu trovato cadavere nei boschi del Primiero, nel novembre del 2018.
L’allarme venne dato dal titolare di una ditta che disse di aver trovato quel corpo per caso, in fondo ad un dirupo. Si guardò bene dal dire che lui quel giovane lo conosceva bene, lo aveva chiamato a lavorare (in nero), probabilmente aveva assistito anche all’incidente. Era stato accusato anche di aver spostato il cadavere, per non compromettere la ditta. Perché gli immigrati sono utili solo a lavorare, ma non debbono essere visti, non devono portare problemi. Nemmeno da morti.
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