Si compiono in questi giorni gli ottant’anni dal giorno in cui Josef Mayr-Nusser, nell’aula fredda del centro di addestramento di Konitz, di fronte ad alcune decine di suoi commilitoni atterriti, alzò improvvisamente la mano, non per il saluto al Führer, ma per manifestare il rifiuto di prestargli giuramento. Era il 4 di ottobre del 1944. Josef, come un novello Francesco di Assisi, che mostra al potere – che non lo capisce – la nudità della sua propaganda e il nulla delle sue prospettive di morte. “Giuro a te, Adolf Hitler, Führer e Cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te l’obbedienza fino alla morte. Che Dio mi assista”.
“Io”, dichiara Josef, “questo giuramento non posso pronunciarlo”. Al maresciallo che gli chiede, “Lei dunque non è un nazionalsocialista al cento per cento?”, risponde senza esitare: “No, non lo sono”. Come un “rinuncio” nelle promesse battesimali. A un compagno che più tardi gli domanderà se ne valga davvero la pena, dice: “Se mai nessuno ha il coraggio di dire loro che non è d’accordo con le loro visioni nazionalsocialiste, le cose non cambieranno”.
Un commilitone presente ai fatti ricorda: “Tutta la compagnia assistette come paralizzata, non solo io, ma molti altri ebbero l’impressione che Pepi in quel momento avesse firmato la sua condanna a morte”.
La decisione di non pronunciare il giuramento a Hitler non fu un capriccio da eroe improvvisato. Fu il punto d’arrivo di un percorso di formazione della coscienza e di discernimento comunitario. Una scelta in gran parte condivisa. Josef Mayr-Nusser non è un eroe solitario – anche se fu lasciato solo dai più – e non si comprende la sua decisione se non la si colloca nella relazione con un “tu” e con un “noi”.
Pochi giorni prima del 4 ottobre, aveva scritto alla moglie Hildegard: “Una preoccupazione affliggerà anche te da quando sai che presto servizio nelle SS e ti sarà tornato alla mente il caso di Ernst Haller. Non ho dubitato un attimo su come mi comporterei in una simile situazione e tu non saresti mia moglie se ti aspettassi qualcosa di diverso da me” (Ernst Haller aveva subito due settimane di carcere per non aver voluto rinnegare la sua fede). “L’impellenza di tale testimonianza è ormai ineluttabile, perché due mondi si stanno scontrando. I miei superiori hanno mostrato fin troppo chiaramente di rifiutare e odiare quanto per noi cattolici vi è di sacro e intangibile. Prega per me, Hildegard, affinché nell’ora della prova io agisca senza timore e senza esitare, lo devo a Dio e alla mia coscienza”.
Sei mesi addietro, all’inizio di aprile 1944, Josef aveva incontrato a Gries Toni Kaser, giovane segretario dell’Azione cattolica e suo testimone di nozze. Compagno di tante riflessioni assieme alla comunità dei giovani bolzanini. Che fare in caso di arruolamento? Fuggire no, perché le famiglie sarebbero sottoposte a gravi ritorsioni. “Ma la nostra volontà non la piegheranno. Il giuramento non glielo presteremo”. Toni ricordava bene quelle parole. Sono le ultime che aveva sentito pronunciare da Pepi: “Il giuramento non lo presteremo. Lo dobbiamo ai nostri giovani”. “Non possiamo prima fare loro bei discorsi e poi non attenerci alle nostre stesse parole”. Poi, scuro in volto, Josef aveva sussurrato: “Probabilmente questa la pagheremo con la vita”.
C’è una distanza siderale tra la mano alzata di Josef – che lo condurrà sul treno della morte – e i nostri “mi piace” (o “non mi piace”) apposti con tanta disinvoltura accanto a parole spesso vuote o posticce. Tanta distanza come tra il nulla e il tutto. La distanza che intercorre tra il pensiero breve – che fa cadere vittime dei populismi – e il pensiero lungo, variegato, complesso, che si nutre di esperienze autentiche e di relazioni vere. Il primo genera piccoli o grandi mostri, il secondo piccoli o grandi eroi dei quali – non ce ne voglia Bertolt Brecht – abbiamo tanto bisogno.
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