Quegli sciami di droni nei cieli israeliani

Lancio di missili contro Israele. Foto AFP/Sir

I bagliori nei cieli di Baghdad, qualche decennio fa, ci avevano dato l’idea di cosa volesse dire assistere, sul divano di casa, ad una guerra in diretta. Dominavano il verde dei traccianti e il rosso delle fiamme. I missili, lanciati da portaerei lontane centinaia di chilometri, portavano morte, distruzione ed “effetti speciali” trasmessi “live” e “no stop” dalle grandi reti televisive americane. Poi è arrivata l’alba del 24 febbraio di due anni fa: la guerra scatenata da Putin è giunta sui nostri telefonini all’ora di colazione: la guerra vista con gli occhi delle famiglie di Kiev, la quotidianità devastata dalle bombe, la fuga dalle abitazioni, le stazioni della metropolitana trasformate in rifugi, i bambini con lo spavento negli occhi, il bacio tra i fidanzati che dovevano separarsi per mettersi a disposizione del proprio Paese aggredito. Le foto e i video postati sui social hanno saputo portarci in una dimensione che non conoscevamo e che non potevamo nemmeno immaginare.

Le immagini dei bombardamenti in Iraq (come quelle di Belgrado, qualche anno dopo) e i racconti via social della quotidianità spazzata via in Ucraina, facevano vedere cos’è la guerra anche a chi era lontano migliaia di chilometri. Non era mai successo prima nella storia dell’umanità. Con un impatto emotivo ben diverso rispetto a quello portato dalle descrizioni sui giornali degli inviati di guerra o dal racconto di reduci che tornati a casa avevano ben poca voglia di riaprire con il ricordo ferite che si volevano cicatrizzare per sempre. Le nostre, paradossalmente, sono generazioni che hanno goduto, come mai prima, di decenni di pace, ma hanno anche potuto vedere la guerra in diretta.

L’attacco dell’Iran contro Israele ha segnato – al di là delle valutazioni militari e geopolitiche – l’esordio di una narrazione che si fa essa stessa strumento bellico. Un attacco ad effetto differito. Dove ciò che conta sono le esplosioni provocate in casa altrui, ma anche l’effetto dell’annuncio e l’ansia dell’attesa: il fatto che si sappia che sono state lanciate alcune centinaia di missili – senza sapere quando e dove arriveranno – colpisce nel profondo una comunità che pure è preparata e confida nello scudo spaziale della propria difesa. Ci sono tre ore nel corso delle quali tutto è stato raccontato senza che, dal punto di vista degli effetti, nulla fosse ancora successo. Chi ha seguito la cronaca su X (ex Twitter) ha avuto la possibilità di essere partecipe di una sceneggiatura che, nella sua drammaticità, nemmeno l’intelligenza artificiale generativa sarebbe in grado di rendere così precisa ed incalzante. Dal tweet che annunciava l’inizio dell’attacco (alle 21.20 ora italiana) al tweet di Nello Scavo, inviato di Avvenire, che tre ore dopo (a mezzanotte e venti) dava conto di forti esplosioni udite a Gerusalemme. Nel mezzo, centottanta minuti di tweet che rimbalzavano da una parte all’altra del Medio Oriente e che davano l’idea (e portavano le immagini) dello sciame di droni e missili lanciati verso il territorio israeliano e che in termini di propaganda hanno portato un indubbio successo al regime iraniano. E hanno consentito ad Israele, vittima dell’aggressione, di uscire dall’isolamento internazionale conseguente alla guerra di Gaza: non solo i Paesi occidentali, ma – silenziosamente – anche tanti Paesi arabi che vedono nell’Iran il grande pericolo per il mondo sunnita.

In Italia, i primi tweet dell’attacco sono stati pubblicati verso le 21.45. Ma già mezz’ora prima era arrivata la notizia che la Giordania aveva chiuso lo spazio aereo; dagli Stati Uniti, alle 21.20, alcuni giornalisti riferivano della partenza dei droni dall’Iran e del decollo dell’aereo di Netanyahu da Tel Aviv, con tanto di mappa “live tracking” (il sistema che rileva in tempo reale i movimenti degli aerei in volo) che documentava il tragitto del velivolo presidenziale.

Alle 22.14 viene annunciato che i droni stanno sorvolando il sud dell’Iraq: alle 22.33 sono gli iraniani a dire che c’è stata la partenza di un secondo sciame di droni; alle 23.06 della terza; a mezzanotte i tweet portano anche i video dei missili iraniani in volo. E mentre droni e razzi erano ancora in viaggio (due ore di crociera per arrivate in Israele), da Teheran arrivavano già le immagini di manifestazioni di piazza, di giubilo per l’attacco.

Ormai la guerra delle narrazioni (fatta di annunci, di propaganda, anche di fake news) ha una funzione ben precisa in un quadro bellico. Lo è sempre stato, ora la tecnologia consente attivazioni sempre più efficaci. Non solo per chi attacca, anche per chi difende. Alle 22.41, sempre via tweet, arriva la notizia che la Giordania (Paese strategico non solo dal punto di vista geografico, proprio in mezzo tra Iran e Israele) avrebbe abbattuto i velivoli entrati nel suo spazio aereo: alle 23.41, viene annunciato che aerei americani e francesi erano decollati per fermare i droni; qualche minuto dopo, un altro tweet precisava che aerei americani ed inglesi stavano già operando nei cieli della Siria e del Libano. Una vera e propria “cronaca in diretta”, perché anche questo, forse, era uno degli obiettivi degli iraniani: mostrare i muscoli e ribadire il proprio ruolo nella regione.

Ancor prima che le sirene cominciassero a suonare a Gerusalemme e nelle altre località israeliane, un tweet della rappresentanza iraniana all’Onu annunciava che l’intervento era concluso. Un tweet che metteva dunque fine al racconto dell’attacco, ben prima che il cielo della Terra Santa diventasse una sorta di schermo pieno di bagliori ed esplosioni. L’annuncio e l’attesa erano stati – per fortuna – più efficaci dei missili stessi. Questa, del resto, è la realtà della guerra ibrida, quella che si combatte con i social e con le nuove forme di comunicazione. Perché, per il regime iraniano, il risultato più evidente da mostrare ovunque non è il missile finito nelle acque del mar Morto, ma l’immagine dei droni che illuminano il cielo sopra la Cupola della Roccia, sulla spianata delle Moschee (o Monte del Tempio per gli ebrei). Una semplice fotografia che viene utilizzata dagli Ayatollah per dire che è possibile “liberare” Gerusalemme. Rivolta in primo luogo ai palestinesi che però non hanno manifestato grande entusiasmo per l’iniziativa iraniana. Quei droni sopra la Spianata – “casa comune” per tutti i figli di Abramo – sono soprattutto un monito per tutti: non è possibile continuare a danzare ad occhi chiusi sull’orlo del burrone.
(51 – continua)

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