“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti”. Così inizia la “Lettera a una professoressa” dei ragazzi di Barbiana, piccola e sperduta frazione di Vicchio, zona montuosa del Mugello. Da Barbiana non ci si passa, non ci si arriva per caso: ci si deve proprio andare. Qui fu mandato, nel 1954, don Lorenzo Milani, “prete scomodo” per la curia fiorentina. Non c’era acqua, né luce. Non c’era nemmeno la strada per arrivarci. Per prima cosa, lui che aveva solo 31 anni e veniva da una famiglia cittadina, borghese e benestante, comprò un pezzo di terra al camposanto. Come dire: non sono di passaggio, questo posto fuori dal mondo non sarà solo una parentesi, sarà il luogo del mio impegno, questa sarà la mia terra.
A Barbiana, sabato prossimo (27 maggio) arriverà Sergio Mattarella. Un riconoscimento importante, quello del Presidente della Repubblica, nel giorno in cui don Lorenzo avrebbe compiuto cento anni. Morto nel 1967, a soli 44 anni, “il Priore” è diventato subito un importante riferimento per chi era impegnato nel mondo della scuola, nel sociale, in politica. Quell’ “I care” – mi sta a cuore, mi interesso, mi faccio carico: il contrario del fascista “me ne frego” – che nella “Lettera” viene così spiegato: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti assieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Mezzo secolo dopo (il libro uscì nella primavera del 1967), “Lettera ad una professoressa” mantiene, attuale, il medesimo approccio di denuncia e di proposta. Anche per questa nostra epoca delle mille connessioni digitali, della scuola fatta con le lavagne interattive, delle chat di classe (che tutto dicono, esasperano, cancellando però il dialogo), dei registri elettronici. A Barbiana, l’obiettivo era quello di ridurre le distanze, di colmare le differenze, di dare a ciascuno – anche a chi non aveva le possibilità – le stesse opportunità.
Don Milani fece costruire una piscina affinché anche i ragazzi montanari della parte più sperduta del Mugello non avessero paura dell’acqua. La lettura dei giornali era esercizio quotidiano non solo per sapere cosa stava succedendo nel mondo, ma soprattutto per comprendere i fatti, sviluppare una visione larga, accrescere la capacità di interpretare. L’importanza, cioè, di “ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia”, come ebbe a ricordare papa Francesco nella sua visita a Barbiana il 20 giugno 2017 (a 50 anni dalla morte del Priore). “Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso”.
Possedere la parola, dunque. Quella che, nella Barbiana di mezzo secolo fa, segnava la differenza tra Sandro (“Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta”) e Pierino (“I cromosomi del dottore sono potenti. Pierino sapeva già scrivere a cinque anni. Non ha avuto bisogno di fare la prima. Entra a seconda a sei anni. Parla come un libro stampato”).
Quel “possedere la parola” che oggi rimane la discriminante tra ragazzi che appartengono alla stessa “Generazione Z” (nati tra il 1997 e il 2012), che usano gli stessi strumenti di connessione, seguono le stesse mode, vestono tutti in modo uguale. Apparentemente, parlano lo stesso linguaggio. Ma è dietro questa apparenza che si nasconde il grande imbroglio che i ragazzi di Barbiana avevano identificato nei “cromosomi potenti” del dottore. La rete offre l’illusione di vivere tutti al centro del villaggio dove, però, senza gli strumenti della conoscenza, si rischia di essere solo destinatari finali di interessi spesso non esplicitati, quasi mai evidenti. Un appiattimento che allarga ancor più la forbice tra chi, comunque, ha occasione di accedere ad altre fonti formative (la famiglia, l’ambiente sociale, scuole particolari, soggiorni all’estero, frequentazioni elitarie) e chi invece è lasciato in balia dei social dove sono gli algoritmi a scegliere per lui. Come Gianni che da Barbiana se ne era andato: “Noi non ce ne diamo pace. Lo seguiamo da lontano. S’è saputo che non va più in chiesa, né alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato a ballare, la domenica allo stadio”.
L’immagine di Gianni è una foto in bianco e nero degli anni Sessanta. Ma oggi – anche se non se ne parla – c’è l’immagine a colori di una scuola e di una comunità che hanno sempre più bisogno di una nuova “istruzione civica digitale”, capace di offrire strumenti e conoscenze per una vera cittadinanza. Per evitare che i “Gianni” del terzo millennio siano, come allora, perduti.
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