Pinocchio sotto le bombe nella versione dark della celebre fiaba del burattino di legno

Le vite del burattino. Nel 1883 va alle stampe a Firenze “Le avventure di Pinocchio”, romanzo di Carlo Collodi diventato un classico della letteratura in Italia e all’estero. Un bestseller dai numerosi adattamenti tra cinema e Tv, a cominciare dalla versione zuccherosa della Disney del 1940, il secondo film animato dopo “Biancaneve e i sette nani” (1937).

In Italia ha lasciato il segno lo sceneggiato Rai firmato Luigi Comencini, “Le avventure di Pinocchio” del 1972, con Nino Manfredi come Geppetto.

Nel tempo la “febbre” da Pinocchio non si è mai arrestata: Roberto Benigni nel 2002, dopo i tre Oscar per “La vita è bella”, si è cimentato nella rilettura del burattino facendo tesoro della lezione felliniana. E dopo la miniserie Rai-Lux Vide (2009) diretta da Alberto Sironi e l’animazione di Enzo D’Alò (2012), altri tre grandi autori si sono messi in gioco con il testo di Collodi: Matteo Garrone nel 2019, spingendo su chiaroscuri e poesia; il Premio Oscar Robert Zemeckis in chiave live-action per Disney+, recuperando lo spirito dolce dell’animazione anni ’40; infine, il Premio Oscar Guillermo del Toro per Netflix stop-motion, prima al cinema e poi su piattaforma dal 9 dicembre.

Resistenza. Italia fascista, Geppetto (David Bradley) è un falegname che piange la morte di suo figlio Carlo. Si costruisce così un burattino della grandezza di un bambino: è Pinocchio, che prende vita grazia all’intervento misericordioso dello Spirito del Bosco (Tilda Swinton).

L’esuberanza del burattino, che né Geppetto né Sebastian il grillo (Ewan McGregor) riescono ad arrestare, diventa un ingombrante problema per il Podestà (Ron Perlman) del posto e per suo figlio Lucignolo (Finn Wolfhard).

Pros&Cons. Pinocchio finisce nella morsa nazifascista, pronto con il sorriso a mettere in discussione il pensiero dominante. È questa la suggestione del film “Pinocchio” voluta dal geniale autore Guillermo del Toro (“La forma dell’acqua”, 2017, Leone d’oro e Oscar miglior film-regia), il quale dichiara: “Per me era fondamentale mostrare un mondo in cui ognuno si comporta come un burattino e ubbidisce, mentre il vero burattino è l’unico a disubbidire”.

Il regista sposta dunque ascisse e ordinate della storia di Collodi, finendo nell’Italia infiammata da odio e guerra; lì si snodano le avventure del burattino che non si smarrisce nel “paese dei balocchi”, bensì nel campo di addestramento per giovani reclute del regime. Uno scenario tra denuncia e irriverenza, claustrofobico, in linea con le atmosfere dark-gotiche predilette dal regista messicano.

In generale, il “Pinocchio” di del Toro funziona di certo per lo stile e la confezione formale, l’animazione in stop-motion messa a punto con Mark Gustafson, capace di generare incanto, giocandosi tra sogno e brivido, tra dolcezza e ironia grottesca. Una favola sociale a sfondo storico resa frizzante da inserti di umorismo pungente; un’attualizzazione acuta e interessante della pagina di Collodi, in cerca di nuove angolature per (ri)scoprire la densità valoriale e tematica dell’opera. Questo grazie allo sguardo di un regista che ama esplorare le zone di luce e d’ombra della fantasia.

Consigliabile, problematico, per dibattiti.

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