I lettura: Ezechiele 33,1.7-9;
II lettura: Romani 13,8-10;
Vangelo: Matteo 18,15-20
Noi siamo contrassegnati da numeri. Dal punto di vista delle comunicazioni siamo dei numeri: numeri di casa, di telefono, di cellulare; un numero contrassegna la carta d’identità, la carta di credito. Non parliamo poi dei numeri di codice, che devono restare segreti ma che è necessario ricordare. Perfino in certi negozi o in certi uffici siamo dei numeri: infatti bisogna ritirare uno scontrino e fare la fila… È inevitabile; se si vuole un minimo d’ordine e d’efficienza non può che essere così. La cosa però ci mette addosso anche un certo disagio: non è bello essere considerati dei numeri. Siamo miliardi a questo mondo, d’accordo, ma miliardi di persone: e siamo così profondamente diversi gli uni dagli altri che non bastano i numeri a esprimerlo. I numeri ci livellano, non rivelano le nostre diversità. E allora ci sorge un dubbio: non è che siamo dei numeri anche davanti a Dio? Lui del resto avrebbe alcune ragioni in più per considerarci dei numeri: non ha a che fare solo con l’umanità dei nostri giorni, ma anche con quella che ci ha preceduto, e con quella che verrà dopo di noi… Come farà Dio a tenere il conto… senza ricorrere ai numeri?
Ebbene no, tranquilli: ognuno è unico agli occhi di Dio, e perciò unico può essere anche agli occhi dei suoi simili. Quale altro senso possono avere se non questo le parole di Gesù in questa prossima domenica? “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano». Perché tutta questa sollecitudine per il fratello se è stato lui a recarmi offesa? Noi saremmo tentati di pensare che in tal caso tocca a lui fare il primo passo! No, tocca a me, l’offeso: perché mai? Perché ognuno è unico agli occhi di Dio, anche se è un fratello che mi ha fatto del male: unico nel senso di prezioso, e Dio quindi non può permettersi di perderlo. E nemmeno la Comunità, che è la famiglia di Dio, può permettersi di perderlo. Infatti lo scopo di tutta quella sollecitudine è “guadagnare il fratello”: in altri termini, se il fratello si rovina oppure si salva, sei tu, è la comunità tutta intera che ne perde o ne guadagna.
È tanta la stima, la considerazione che ha Gesù Cristo per la sua Chiesa-Comunità da investirla tutta quanta di un potere eccezionale: “In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”. Legare e sciogliere era la competenza di Gesù, che quando girava per le contrade della Palestina condannava l’ipocrisia di scribi e farisei (questo era il “legare”) e perdonava peccatori e pubblicani (e questo era “sciogliere”). Ora è la Comunità che ha questa competenza. Fatta di uomini e donne, tutti quanti discepoli ma anche tutti peccatori, ciononostante in questa Comunità c’è Gesù. È lui il Signore, il centro vivo della Comunità. Il che risulta anche da queste altre parole del vangelo: “In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. In quanti bisogna essere per fare Comunità? Gli ebrei sostenevano che – per poter iniziare la celebrazione del Sabato in sinagoga – dovevano essere presenti almeno 10 uomini. Gesù afferma che bastano due persone – due che si accordano, si sintonizzano a chiedere una stessa cosa al Padre – per ottenere ciò che si domanda. E l’insistenza non è tanto su ciò che si domanda (può capitare che il Padre non conceda sempre ciò che si domanda, perché ha i suoi buoni motivi per farcela attendere, o perché ha qualcosa di meglio da darci…); no, l’insegnamento di Gesù verte sul fatto che si è insieme, d’accordo e in sintonia: si direbbe che questa è la lunghezza d’onda giusta per sintonizzarsi anche con il cielo, con il Padre; anzi, in questa situazione sembrano addirittura annullate le distanze tra terra e cielo… Infatti “… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ecco ciò che qualifica quello stare insieme: la presenza di Gesù. Una Comunità può essere piccola, povera, scalcinata, ma se è fatta di gente che ha deciso di credere in Gesù Cristo, lui è presente. E se lui è presente, allora quella Comunità è molto più che la somma dei volti o dei nomi delle persone che la compongono. Ah, certo: la presenza di Gesù Cristo dev’essere creduta, adorata, celebrata, altrimenti … è come se si spegnesse la luce: allora, invece che fratelli, si vedono soltanto sagome: da valutare, da giudicare, o dalle quali difendersi. Gesù, centro vivo della Comunità: solo lui può darci quella profondità di sguardo che ci consente di vedere noi stessi e gli altri così come ci vede Dio: con la sua stessa stima e sollecitudine. Con lo stesso amore.
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