Da un artista poliedrico qual è Julian Schnabel (non solo regista) non ci si poteva certo aspettare un biopic lineare. Non ha quindi sorpreso che il “suo” van Gogh, Sulla soglia dell’eternità, presentato in concorso all’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e in queste settimane in sala, potesse deviare e scartare, tanto più nell’affrontare un animo tormentato come quello del pittore olandese morto suicida nel 1890. L’artista newyorkese (Basquiat, Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla) si focalizza sull’ultimo periodo della vita di Vincent van Gogh passato ad Arles, nel sud della Francia, tra le luci accecanti della Provenza, così complici nello scatenarne i demoni e a mettere in risalto la sua follia esistenziale. Se poi il corpo del pittore prende la forma di un attore come Willem Dafoe, l’attore americano che ormai vive da anni a Roma (Platoon, Mississipi Burning, due tra i tanti film a cui ha partecipato da protagonista), il cerchio si chiude. Tanto che a Venezia Dafoe è stato premiato con la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Già dalla sinossi scritta per il catalogo veneziano si intuisce dove, con quest’opera, Schnabel vuole andare a parare. «Questo film è un insieme di scene ispirate ai dipinti di van Gogh, eventi della sua vita comunemente accettati come fatti realmente accaduti, dicerie e scene completamente inventate» è scritto. Considerazioni alle quali il regista aggiunge: «Questa non è una biografia del pittore realizzata con precisione scientifica. E’ un film sul significato dell’essere artista. E’ finzione e nell’atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità». Riflessioni che fanno il paio con quelle di van Gogh a proposito dell’arte vista come il tentativo di «riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale».
Sembra quasi che tra il regista-artista e il grande olandese si venga a creare un gioco di specchi e rimandi. Un continuo andare e tornare, fluttuante. Il van Gogh di Schnabel è visionario, non necessariamente corrispondente alla realtà, o forse si, più vero del vero, oppure no. E’ una visione d’artista, imperfetta fin che si vuole, magari, ma un’opera d’arte, almeno nelle intenzioni. Tanto più a sentire Schnabel per il quale «l’unico modo di descrivere un’opera d’arte – riflette – è fare un’opera d’arte».
Sulla soglia dell’eternità, come recita il titolo, al limite massimo e possibile, nei meandri di un artista maudit.
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