Italiani: popolo di poeti, pittori, attori e soprattutto santi. E dunque di agiografi che celebrano i santi. Così il popolo sanremese adora Drusilla Donna-finta-ma-trendy, così il buonismo fazista ingabbia con una genuflessione nel suo salotto perfino l’anima di papa Francesco, così Veltroni si commuove per i 70 anni di San Vasco. E alla dura legge dell’agiografia non sfugge il bel documentario (2021, 78’, visibile su Rai Play) intorno alla seconda grande diva del cinema italiano (dopo Anna Magnani): Monica Vitti, che si è congedata dopo un ventennio di silenzio ammalato. Possibile che non si sia trovato un cameriere, una vicina di casa che tirasse fuori un difetto che sia uno. Che ne so: non dava mai le mance o portava collane kitsch. No, un coro di voci tutte al superlativo: fragile sì, certo, ma così bella, brava, intelligente.
E non c’è dubbio che lo fosse Maria Luisa Ceciarelli, nome difficile da divinizzare, la Monica che vediamo nel film di Fabrizio Corallo, dopo il debutto a teatro a 14 anni, è donna intelligente che non sbaglia un colpo, a cominciare dallo pseudonimo che le darà la gloria. Così italiana ma anche universale. Antica e moderna. Basta guardarla, mora o bionda, liscia o riccia, e dici: ma quella mica poteva fare la preside, con quella faccia lì solo l’attrice poteva fare.
Dote unica: un viso capace di passare dal registro drammatico dei film esistenzialisti di Antonioni al farsesco (da Monicelli a Scola) con una sua coerenza, una grazia metamorfica. Certo, grazie ai grandi occhi chiari che, al fondo, nuotavano in un’acqua melanconica, pronti a piangere subito dopo l’ultima risata. A prendere botte e baci, mescolati. Comunque l’unica a infrangere il monopolio maschile, da Sordi a Gassmann, della commedia all’italiana.
“Abitavo vicino all’Accademia. Da fuori il cancello vedevo gli allievi attori ridere, piangere, gridare, crollare a terra. Mi sembravano dei matti. Ma dei matti felici. Decisi che la mia vita sarebbe stata interpretare le vite degli altri”, racconta. Da Fofi a Verdone, i testimonial abbondano nel documentario dal felice titolo ispirato alla Tosca che lei interpretò magistralmente – insieme a Proietti-Cavaradossi – nella commedia amaramente antipapalina di Luigi Magni: “Vitti d’arte, Vitti d’amore”. E bisogno di amore e di non restare mai sola, Monica lo confessa, anche a spiegare perché, per lei, cinema e vita erano intrecciati indissolubilmente, e non solo ai tempi di Antonioni. Non parla l’ultimo amore, un altro regista, Roberto Russo, che ha protetto la sua fragilità malata negli ultimi vent’anni. Ed è giusto così. Una nicchia di discrezione.
“La Vitti eternelle”, ha titolato Liberation, alludendo alla vita eterna delle grandi che non muoiono. Magia degli occhi da cinema, creati per il cinema, come quelli di Monica. Che ci guardavano per essere guardati. In un gioco di specchi. L’Avventura è tutta qua.
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