Si chiama “Visual radio” e consente di vedere la radio in televisione. Una cosa assai strana, perché la radio – per definizione – è essenzialmente ascolto; è linguaggio che racconta e non si limita a descrivere ciò che si vede; è la possibilità di immaginare e non solo di guardare ciò che la telecamera, il montaggio e la regia hanno deciso di farci vedere. La radio, nel sentire popolare, è lo strumento della libertà e della comunicazione persino informale, ciò che non è (era) invece concesso alla televisione: in radio ci si va in jeans, in televisione è (era) richiesto il vestito formale.
Da qualche mese, sul canale 202 del digitale terrestre, il telespettatore può seguire i programmi di Rai Radio 2. Non è certo il primo esperimento, ma certamente è il più significativo: le ampie praterie del digitale terrestre, e gli spazi infiniti della rete, rendono oggi possibile quella logica di crossmedialità che mescola le caratteristiche di ogni strumento per rispondere alla domanda di un pubblico che, di fronte alle tante possibilità offerte dalla tecnologia, ha allargato il ventaglio delle richieste. Perché, dunque, ascoltare la radio senza poterla vedere?
Nata a fine Ottocento, in Italia la radio si presenta ufficialmente quasi un secolo fa (il 6 ottobre 1924) con la prima trasmissione dell’Uri, l’Unione Radiofonica Italiana, e con un programma assai scarno: musica operistica e da camera, un bollettino meteorologico e le informazioni di borsa. L’Agenzia Stefani, la prima agenzia giornalistica italiana (voluta nel 1853 da Cavour), è designata dal Governo fascista quale unica fonte delle notizie. La radio, insomma, come megafono del potere, strumento di intrattenimento, ma anche di propaganda. Sfidando il concetto stesso di libertà dell’etere che di per sé non conosce confini e dovrebbe solo fare i conti con gli strumenti tecnologici. Ciò che ha rappresentato Radio Londra, negli anni terribili del conflitto mondiale, ne è la dimostrazione. Certo, quelle trasmissioni erano nate in una logica di supporto bellico agli Alleati; chi si metteva in ascolto rischiava il carcere, ma le notizie e le idee superavano i confini, entravano nelle case dove altrimenti mai avrebbero potuto arrivare.
In Italia il monopolio statale sulla radio durò quasi 50 anni, sino a metà degli anni Settanta, la prima metà della vita di questo strumento che ha comunque condizionato e trasformato i costumi di un Paese, facendo comprendere ciò che poi sarebbe successo con l’arrivo della televisione: il nuovo linguaggio, il rincorrersi dei gusti, l’omologazione della sensibilità, il formarsi di una cultura nazionale spesso a scapito di quei valori territoriali che solo negli ultimi decenni sono tornati ad essere considerati e valorizzati.
Dalle canzoni di Sanremo (le prime quattro edizioni furono trasmesse, ovviamente, solo alla radio) alle voci di “Tutto il calcio minuto per minuto”, appuntamento della domenica pomeriggio che segnava un punto fermo nella liturgia domenicale degli italiani. Ma anche il ciclismo che nel racconto radiofonico (“C’è un uomo solo al comando”) diventa epopea con Mario Ferretti e poi Giacomo Santini (che le sue esperienze le ha raccontate nel libro “Quanti sassi nei miei sandali” edito da ViTrenD) e sino al “nostro” (per adozione) Manuel Codignoni che dalla moto racconta la corsa con microfono, cuffia e smartphone perché oggi i social vogliono arrivare insieme alla radio.
Nilla Pizzi, Enrico Ameri, Mario Ferretti. Ma anche le cronache giornalistiche che portavano il mondo nelle case: Ruggero Orlando da “Nuova York” era molto più di un corrispondente, era la voce di ciò che c’era al di là dell’Oceano: raccontava quella “America” che sino ad allora era stata solo una via di fuga – difficile, lontana – dalla povertà di intere regioni, compreso il Trentino che ancora agli inizi degli anni Sessanta, per far fronte alla miseria, organizzava il trasferimento della propria gente in Cile.
Alla fine degli anni Sessanta, trasmissioni come “Chiamate Roma 3131” (primo tentativo di stabilire un contatto diretto con gli spettatori) evidenziavano il cambiamento di un’epoca e prospettavano la fine del monopolio che, infatti, sarebbe deflagrato a partire dal 1975 con il sorgere delle prime “radio libere” e con l’esplosione dell’emittenza privata che fece leva proprio sul rapporto diretto tra la radio e i propri ascoltatori. La radio divenne il centro di un nuovo modo di vivere il quotidiano: la musica, le notizie che riguardavano non solo il mondo, ma in primo luogo il “cortile di casa”; la radio come strumento di comunicazione politica (Radio Radicale con le “dirette” dei lavori parlamentari e delle principali iniziative politiche), di presenza ecclesiale (le emittenti diocesane che oggi fanno riferimento al circuito “Radio InBlu”), di impegno civile: solo attraverso una radio libera (“Radio Aut”), in un piccolo paese della Sicilia, si poteva ridicolizzare un capo mafioso del calibro di Tano Badalamenti chiamandolo “Tano Seduto”. Forme di protesta assolutamente nuove, soprattutto a metà anni Settanta, che nel caso di Peppino Impastato costarono (1978) anche la vita.
Cento anni dopo la prima trasmissione Uri, il sistema radiofonico italiano oggi si presenta nel nome del pluralismo e dell’alta qualità, con la possibilità – grazie alla rete – di ascoltare ciò che ci interessa all’orario che preferiamo. E con la possibilità, di vedere le trasmissioni radiofoniche anche in televisione.
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