I lettura: Atti 4,8-12;
II lettura: 1Gv 3,1-2;
Vangelo: Gv 10,11-18
E’ gratificante arrivare in qualsiasi luogo, essere accolti con un sorriso da qualcuno che ci viene incontro, pronuncia il nostro nome e ci porge la mano. La domenica, quando entriamo nella nostra chiesa abituale, probabilmente osserviamo se ci sono persone che conosciamo: magari le salutiamo pure… Ci accade mai di pensare che, prima di tutti gli altri c’è il Signore, che è contento di vederci, ci riconosce uno ad uno e ci accoglie così come siamo? Abbiamo mai provato a immaginare la sua voce che pronuncia il nostro nome, il suo sorriso di soddisfazione nel vederci arrivare? Forse è anche a una semplice esperienza come questa che possiamo riferire il vangelo di questa Domenica là dove afferma: “Io – il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. E’ Gesù a parlare. Una conoscenza, la sua, che è motivata dal suo amore.
Se è giusto, se è normale che la fede maturi e diventi relazione di amore anche da parte nostra, allora è pure normale entrare in una chiesa, sostare davanti a un tabernacolo, (oppure, su un sentiero, davanti a un Crocifisso) e – prima ancora di pensare a dire qualcosa – lasciar affiorare questa convinzione: “Il Signore è contento di vedermi!”. Oso pensare che non siano suggestioni da bambini queste, ma semplicemente la conclusione che traiamo da quelle sue parole: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” . Quando è l’amore a motivare i rapporti interpersonali, si ragiona e ci si comporta così, con tutta spontaneità. Gesù Cristo non è un leader, è un salvatore: ecco ciò che il vangelo di oggi afferma con chiarezza. E dove sta la differenza? I leader ci sono sempre stati. Possono essere personaggi di spicco nel mondo della cultura, oppure della politica, o anche della religione. Di solito tutti cercano un seguito, proseliti, gente che gli vada dietro; e ne nasce un’associazione, o un partito, o un movimento. Sanno accendere gli animi, entusiasmare i cuori, ma pongono anche condizioni: chiedono fedeltà e dedizione per una causa, esigono fiducia, generosità, decisione, anche sacrificio. Gesù Cristo non è un leader; non comincia col chiedere, ma col dare, con l’offrire: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la sua vita per le pecore…”. Ed è talmente preoccupato di prendere le distanze da ogni altro leader o condottiero, che ribadisce più volte questa idea nelle poche frasi del vangelo di questa domenica: “Io offro la mia vita per le pecore…nessuno me la toglie: sono io che la offro, da me stesso…”. Qual è il pastore che dal suo gregge non trae almeno lana, latte, agnelli da vendere al macello? Con Gesù Cristo il rapporto si capovolge totalmente: non è il gregge che dà da vivere al pastore, è il pastore – il buon pastore – che dà la vita per il suo gregge.
Poi parla di potere. A questo mondo il potere consiste nell’avere il coltello per il manico, quindi primeggiare, riuscire anche a costo di eliminare l’avversario o di far morire tutto il gregge; potere di fare l’alto e il basso, insomma. Gesù Cristo ha inaugurato un potere di tutt’altro genere: quello di sacrificare se stessi invece che gli altri, e non da vittime, ma da protagonisti. “Io ho il potere di dare la mia vita…”. Che questo sia l’unico potere degno di tale nome, è provato dal fatto che è più forte anche della morte: “Io ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo”.
E’ la Giornata di preghiera per le Vocazioni la prossima. Infatti, imparare da Gesù a esercitare un tale potere nella vita, equivale a fare di questa una vocazione, o meglio, la risposta a una vocazione. Con ciò s’intende di solito una scelta per la vita religiosa, o sacerdotale, o missionaria, non perché solo queste siano vocazioni degne di tal nome ma perché, se vengono a mancare queste, è probabile che anche le altre (come quella degli sposi, dei genitori, degli educatori, ecc.) calino di tono, e la fede che arde nei cuori, da brace diventi carbone o cenere. Qualcuno va dicendo che quelle dei preti, dei frati, delle suore, sarebbero categorie in via d’estinzione: se ci si riferisce al nostro Occidente, sì… la conclusione parrebbe questa. Ma il baricentro del Cristianesimo – da anni ormai – non è affatto nel nostro Occidente, e là dov’è effettivamente, le situazioni a questo riguardo non sembrano avallare l’idea dell’estinzione. Perché tra noi invece sì? Forse, a fare problema, non è l’estinzione di certe “vocazioni”, ma il venir meno della generosità: il potere di donare la propria vita, come ha fatto Gesù, sta diventando una merce esotica, non solo tra i giovani, tra i ragazzi, ma in generale tra tutti: probabilmente è tutta la nostra cultura odierna che sta diventando sterile in fatto di generosità. E perché pregare allora? Per quanto arido e secco sia un deserto, Dio può far scaturire sorgenti anche nel deserto. Certo, per pregare con convinzione occorre avere l’umiltà di riconoscere che anche la nostra vita fa parte di questo deserto… Forse siamo tutti un po’ avvizziti, inariditi. Ebbene, se la pioggia di primavera può far rifiorire la nostra antica terra (molto più vecchia del nostro pur vecchio Occidente), perché Dio non potrebbe fare altrettanto con noi? Il Dio della Pasqua può far scaturire sorgenti anche nei deserti.
Lascia una recensione