E’ stato presentato al cinema Astra di Trento, mercoledì 4 dicembre, a un anno dal suo annuncio su queste pagine, il film del regista trentino Andrea Andreotti, Il salto. Sala gremita, emozione palpabile nell’aria, quell’emozione che è in parte frutto dell’attesa, del desiderio di vedere il risultato di un lavoro lungo un anno (ma molto di più se si guarda alla nascita dell’idea), l’opera di qualcuno che conosci personalmente, come a Trento accade spesso, ma che ora incontri come professionista e artista. E poi un film girato a Trento, che svela un volto della città che credi di conoscere fino alla pietra più piccola e si rivela altra, perché fatta non solo di pietre, ma delle persone che la abitano e si muovono.
Sono alcune di queste persone che il documentario permette di incontrare, le loro vite, le loro storie, le loro attese. E in primo luogo il salto che tutte hanno compiuto, da un paese lontano, dalla loro cultura, dalla loro famiglia, dal loro lavoro, a Trento. Alcuni dall’Africa (Senegal, Camerun, Marocco), altri dal Bangladesh, dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Colombia, e un po’ più vicino, dalla Bulgaria, dall’Albania. Sette uomini e tre donne che si raccontano, che dicono come sono arrivati qui, con quali desideri, con quali paure e fatiche, che cosa hanno trovato, che cosa non hanno trovato. Racconti personali, ciascuno a sé benché accomunati dalla migrazione, dal trovarsi in una terra di mezzo in cui rielaborare l’identità; racconti che avvengono tra l’interno delle abitazioni o dei luoghi di lavoro e l’esterno di una città illuminata dalle luci e dai suoni del Natale. La ruota panoramica di piazza Dante che diventa in qualche modo figura del discorso filmico.
Anche perché la riprende un’altra immagine di giostra, in miniatura questa volta: un carillon coi cavallini che appartiene a Concetta-Ketty, che racconta la sua si migrazione, a inizio anni ’60, dalla Sicilia a Milano, e il modo in cui questa esperienza l’ha segnata privandola della sua identità d’origine. Cosa curiosa, l’esperienza di Concetta sembra più traumatica dei racconti contemporanei di salti ben più sradicanti… segnale che l’identità in transizione non è solo affare di oggi, non è figlio della sola globalizzazione.
Ma Andreotti non fa discorsi sociologici, sfiora di striscio il politico; dà invece voce a persone che hanno trovato casa tra noi, suscita il desiderio di incontrarle nelle vie di Trento, e salutarle. Addita l’unica via per affrontare il problema più grande e la paura che sembra mangiarsi anche il Trentino. Confortano le storie di comune umanità, conforta infine che per loro “ci sia stato posto all’albergo”…
Potremmo considerarlo il “film di Natale” per la nostra realtà trentina. Un lavoro che merita una circolazione e una presentazione anche nelle nostre sale (il regista è disponibile, il nostro settimanale anche) per rilanciare un’attenzione non effimera su questi temi.
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