SOMM: E' doveroso ritagliare il tempo per offrire informazioni spesso emotivamente pesanti su diagnosi e prognosi. La relazione con chi soffre è irrinunciabile
Lei, dott. Noro, è un primario e quindi voglio chiederle che cosa deve attendersi il malato anziano dal “giro dei medici” che nei giorni feriali arrivano spesso accompagnati da giovani specializzandi. Lo dico perchè talvolta il dialogo è molto limitato, oppure poco comprensibile, e il malato rimane con molte domande irrisolte.
Lettera firmata
Ovviare a queste mancanze è tanto più importante quanto più si riconosce il ruolo del dialogo: la relazione col paziente o con i famigliari non è un momento facoltativo, un “lusso” da praticare o meno a seconda della disponibilità di tempo, del buon umore del medico o delle condizioni ambientali. Al contrario, è doveroso ritagliarsi spazi soddisfacenti per offrire informazioni spesso emotivamente pesanti su diagnosi e prognosi. La relazione con chi soffre è irrinunciabile.
Ogni medico è consapevole di questo e si deve impegnare nel
In tutto ciò, cortesia ed empatia vanno di pari passo: se un medico non è intrinsecamente cortese e disponibile non saprà ascoltare i problemi del paziente con l’attenzione necessaria. Per gli esseri umani la cortesia e la gentilezza dovrebbero essere facili, facili come sorridere. Anche il tempo di attesa di un esame, di un test che magari si allunga fino a diventare macigno nella giornata del paziente, non può essere sottovalutato. Spesso per ridimensionare i medici e gli operatori dicono frasi come “cosa vuole, sono solo due giorni”, non comprendendo che si tratta di quarantotto ore di ansiosa attesa. Forse sarebbe più opportuno dire, in modo empatico: “Saranno due giorni lunghi, di attesa, lo immagino; se ha bisogno, mi chiami e io ci sono”.
Riprendo e riscrivo alcuni appunti di un convegno sulla medicina narrativa. A proposito della storia personale di ogni malato nell’ottica di una cura adeguata, il medico filoso e saggista Giorgio Cosmacini diceva: “Il concetto di cura non coincide con la terapia e la diagnosi, ma comprende una fetta non misurabile. Questa fetta è rappresentata dalle emozioni: sofferenza, paura, speranza, malessere. La narrazione è il ponte dove si incrociano gli immaginari, ponte che deve essere aperto, ma che il professionista deve saper maneggiare per riportare la magia della parola dentro il percorso di cura. L’uso della narrazione è strategico, finalizzato a promuovere un cambiamento nel paziente”. E ancora: “La medicina non è riducibile alle sue scienze di base e alle tecniche generate da esse. Senza l’altra metà finalistica, umana, logica, indispensabile per completare la sua identità, la medicina non è più la stessa. Perché la medicina non è una scienza. Essa è di più”.
Vado oltre e aggiungo che a volte è utile svincolare la narrazione dalla “medicina” e praticarla semplicemente per sé, come atteggiamento mentale, proposta relazionale. Allora, dimenticandosi del concetto di medicina e approcciandosi all’anziano senza considerarlo “malato”, attraverso il dialogo si possono avere piacevoli sorprese che fanno stare meglio sia il vecchio sia chi si prende cura di lui.
Riscrivo il racconto di Giulia, “Quando ero giovane mi piaceva andare a ballare e facevo tanti tanghi – mi ha raccontato un giorno Giulia, amabile vecchietta prossima all’età di 99 anni, ricoverata in casa di riposo a seguito di limitazioni della motilità – poi mi piaceva cucire, fare vestiti, cappotti, gonne. Non ho mai avuto sogni, ma ora voglio morire, sono stanca, che scopo ho io di vivere? I miei figli sono bravi, ma hanno la loro famiglia”. Quando parla delle cose piacevoli, dei viaggi, della famiglia, i suoi occhi brillano di una luce più intensa, mentre si incupiscono quando sostiene di essere satura di vita. Alla domanda di cosa le piacerebbe fare, così mi risponde: “Vorrei camminare. Mi dispiace che mi limitino nei movimenti, mi dicano di stare attenta, mi tirino di qua e mi tengano di là. A volte mi dimentico che sono vecchia, lo capisco, ma la mia testa si vede che è balorda. Preferisco rischiare di cadere piuttosto che stare immobile.” Poi aggiunge: ”Mi sono dimenticata di dirle che sono sorda e anche questo mi dà fastidio”.
Come curare se non si comprende cosa sta a cuore al paziente? Mi si potrebbe accusare di avere una visione idealistica e retrò della medicina. Ma rivendico l’importanza di instaurare nuovi rapporti col paziente (portatore di diritti, ma certo anche di doveri), specialmente se penso a certe follie che purtroppo al giorno d’oggi incontriamo, come ad esempio le applicazioni dei telefonini tanto di moda nel mondo anglosassone. Permettendo una diagnosi senza medico, sono la negazione dell’incontro medico–paziente.
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