La fine della Seconda guerra mondiale fu per tutto il mondo una “liberazione”. Oggi la cosa è (più o meno) pacifica. E tuttavia la musica del 25 aprile non vibra per tutti allo stesso modo. C’è chi ne fa un elemento ideologico, chi un motivo di scontro, chi una festa di popolo. Per alcuni la ricorrenza è indifferente, altri ancora non sanno nemmeno bene di che cosa si tratti.
Nell’Alto Adige che fonda sull’uso a volte strumentale della storia parte della propria identità e del proprio ordinamento, le feste nazionali non sono mai un fatto scontato. Alcuni giorni fa, intervistato dal quotidiano Neue Südtiroler Tageszeitung, lo storico Hannes Obermair ha spiegato i termini della questione.
“Per molto tempo”, dice Obermair “la giornata è stata fortemente trascurata, se non considerata un tabù, in particolare dalla popolazione di lingua tedesca”. La cosa è naturalmente legata ai conflitti con lo Stato nazionale in merito all’autonomia che hanno caratterizzato i primi decenni del dopoguerra. È tipico delle minoranze etniche avere difficoltà a identificarsi con ricorrenze di carattere nazionale. “Più una minoranza si lascia coinvolgere in una cultura nazionale della commemorazione, più teme, anche se a torto, di perdere il proprio profilo”. A ciò si aggiunge che a lungo in Italia il 25 aprile ha avuto connotatati militaristici e meno quelli “di una celebrazione politico-democratica e inclusiva”. Ma c’è anche, dice Obermair, “un certo analfabetismo storico in Alto Adige, che ha completamente ignorato il proprio coinvolgimento, soprattutto nel nazionalsocialismo. La tesi dominante che i sudtirolesi di lingua tedesca fossero soprattutto vittime del fascismo, ha ostacolato a lungo la rivalutazione storica. Poi l’improvviso benessere e l’autocompiacimento sociale hanno aperto la strada a una diffusa indifferenza rispetto alla storia”.
Secondo Obermair un cambiamento di paradigma nella consapevolezza della propria storia si è avuto dopo la “gioviale” era Durni, con Arno Kompatscher, “il primo presidente della Provincia che si sia impegnato chiaramente per questa giornata e che ha ripetutamente sottolineato il valore della resistenza altoatesina. Solo a partire da Kompatscher c’è stata una posizione antifascista di una parte della classe dirigente di lingua tedesca”. “L’attuale presidente ha la sensibilità e la statura intellettuale necessarie per esprimersi in modo inequivocabile e per affrontare pubblicamente i lati oscuri della storia dell’Alto Adige”.
Ma anche la società nel suo insieme ha seguito un percorso di crescita, grazie anche a una generazione di storici di entrambi i gruppi linguistici che hanno contribuito allo sviluppo di una “cultura della memoria che riprende la doppia esperienza altoatesina di dittatura sotto il fascismo e il nazionalsocialismo e fonda così una cultura della memoria antifascista”. Numerose le iniziative realizzate: la mostra permanente sotto il monumento alla Vittoria a Bolzano, la cura dell’ex campo di concentramento in via Resia, la posa delle “pietre d’inciampo” a Bolzano e Merano, la riprogettazione del rilievo di Mussolini in piazza del Tribunale, il “Treno della Memoria” e la riscoperta di testimoni come Josef Mayr-Nusser.
Sono passati i tempi (non da tanto) in cui un politico bolzanino poteva ancora affermare, senza doversi subito dimettere, che “il vero giorno della liberazione per i sudtirolesi fu l’ingresso della Wehrmacht l’8 settembre 1943, che pose fine a 20 anni di oppressione sotto il fascismo”.
Hannes Obermair vede il 5 settembre, ricorrenza della firma dell’Accordo di Parigi e giornata dell’Autonomia, come un buon pendant al 25 aprile. “Forse entrambe le date potrebbero essere combinate con il Giorno della Memoria della Shoah, il 27 gennaio, per formare una triade ideale di cultura della memoria condivisa”.
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