La scuola e la rivoluzione digitale

La domanda non è “se” formare i ragazzi all’utilizzo delle nuove tecnologie, ma “come”

Sono una maestra elementare. Mi occupo, tra l’altro, dell’innovazione tecnologica nell’istituto dove insegno. Stiamo sperimentando alcuni percorsi in linea con il PNSD 2015 (Piano Nazionale Scuola Digitale) per l’acquisizione delle competenze digitali nelle scuole di ogni ordine e grado. Stiamo facendo un grande sforzo per il rinnovamento e il cambiamento delle metodologie, delle strategie, delle tecniche di insegnamento, ma pure del complessivo approccio pedagogico che scaturisce dall’impatto con le nuove tecnologie. Il compito della scuola del 21.mo secolo è quello di formare alunni consapevoli delle potenzialità e dei rischi della rivoluzione digitale. Spesso però questi docenti vengono visti con molto scetticismo, come se seguissero soltanto una moda. Era preferibile forse la maestrina dalla penna rossa?

Carissimo Piergiorgio, potresti fare a meno delle tecnologie? Dubito proprio. E allora perché dovremo farne a meno nella scuola?

Maura

Sono contento di poter rispondere a questa domanda proprio a ridosso dell’inizio del nuovo anno scolastico. E' anche bello riflettere non solo su un presente costellato dagli innumerevoli problemi connessi alla scuola, ma sul futuro, sulle nuove progettualità. Ovviamente le tecnologie digitali rivestono un'importanza centrale in questo ambito. Non si tratta però soltanto di un cambiamento che riguarda “tecniche” di apprendimento, ma di una vera e propria “rivoluzione” generale del nostro modo di insegnare, di imparare, di relazionarci con gli altri… insomma del nostro stare al mondo. Quindi la domanda non verte sul “se” formare i ragazzi all’utilizzo delle nuove tecnologie, ma sul “come” compiere quest’attività di formazione.

Quando scrivo su questi temi sento sempre il dovere di citare il pensiero e la ricerca di una sociologa americana, Sherry Turkle, che si occupa da più di 30 anni del nostro rapporto con la rivoluzione digitale e sul suo impatto in ogni ambito della vita individuale e sociale. Turkle insegnava al Mit di Boston, il tempio dell’innovazione e delle istanze più avanzate di sperimentazione. Ebbene, questa studiosa è molto scettica sul fatto che la tecnologia consenta un salto in avanti per la didattica e per l’educazione dei ragazzi.

Certamente, come dicevi tu, non possiamo “fare a meno” delle tecnologie, come non possiamo “uscire” da un mondo ormai globalizzato. Questo è il tempo in cui viviamo. Scrive Turkle: i nuovi dispositivi tecnologici “sono una realtà della vita e parte della nostra esistenza creativa. L’obiettivo è quello di utilizzarli con maggiore consapevolezza”.

Detto questo non dobbiamo etichettare i docenti più interessati al tema come vittime della moda digitale, ma neppure esaltare i mirabolanti progetti (anche governativi) come se fossero la panacea di tutti i mali. Nel Piano del 2015, che tu citavi, si legge: “L’educazione nell’era digitale non deve porre al centro la tecnologia, ma i nuovi modelli di interazione didattica che la utilizzano”. Non sono certo un esperto pedagogista e faccio fatica ad addentrarmi in un linguaggio comprensibile soltanto agli addetti ai lavori. Ho capito però che si vuole incentivare sempre di più la collaborazione attiva degli studenti che non sono più semplici recettori passivi di nozioni, ma soggetti attivi e interattivi che devono acquisire alcune competenze.

Un tempo l’obiettivo della scuola era quello di insegnare a “leggere, scrivere e far di conto”. Magari anche di parlare, di sostenere una conversazione, di difendere le proprie ragioni. Oggi le “competenze” si moltiplicano. Ecco qualche esempio. I fautori più accesi della scuola digitale dicono che ormai occorre insegnare ai ragazzi come “cercare” le informazioni su Google (un oceano infinito di spunti, informazioni, possibilità sconosciuto fino a qualche anno fa) piuttosto di obbligarli a imparare a memoria una data, una nozione di geografia, un teorema di geometria. Tanto in Rete “c’è tutto”. In questo modo però gli studenti saranno sempre di più “dipendenti” dal loro smartphone, dal loro tablet. Non riusciranno più a compiere da soli un ragionamento complesso.

Si dice giustamente che tutte le scuole devono essere connesse a internet con una fibra ottica. Vero, ma forse il problema che si pone oggi è l’opposto: come fare affinché gli studenti non siano “sempre” connessi, anche durante le lezioni. Perché, lo sappiamo, gli strumenti tecnologici ci distraggono terribilmente. Siamo convinti di poter fare molte cose in contemporanea (il famoso “multitasking”) ma il pericolo è la mancanza di attenzione, la frammentarietà, l’incapacità di elaborare progetti che richiedono tempo. Tanto, così si crede, in Rete c’è la risposta per tutto. E arriva in pochi secondi. Non serve sforzarsi troppo. Ma questa è un’illusione.

Si dice che bisogna creare “ambienti di apprendimento innovativi” con lavagne elettroniche, canali interattivi, modelli didattici capaci di superare la famigerata “lezione frontale”. Alla fine però conta la presenza fisica in un’aula che sia luogo di incontro tra parole, gesti, emozioni, maestri e compagni di scuola. Tutto il resto può essere utile ma non deve sostituire la concreta relazione tra le persone.

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