Forse solo un cattolico praticante e nostalgico come Pupi Avati, classe 1938, poteva inventarsi – per il suo nuovo film-confessione, il suo film n.43 escludendo tutti quelli per la tv! – un titolo così liturgico e spiazzante come “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” (14 come le stazioni della Via Crucis?), cioè quella domenica di giugno (il 27 del 1964, nella realtà della sua vita) quando il suo alter ego Marzio sposa la bellissima Sandra in una chiesa adornata di fiori, promettendole amore eterno. Che eterno non sarà. Eppure, alla fine…
Dopo la grande impresa di Dante, il regista bolognese torna al suo registro più intimo. Lui, sicuro di aver sposato “la seconda ragazza più bella di Bologna” (e tuttora si amano), nella Quattordicesima domenica mette in scena una dolente commedia di dolori, lutti, amore infranto, amicizia tradita.
Al centro della storia, che va avanti e indietro tra i giorni nostri e gli anni Cinquanta, una coppia di ex sex symbol del cinema italiano, Gabriele Lavia e Edwige Fenech, disillusi tristi e separati. Nella prima scena si vede l’amico di Marzio, Samuele (che ha il volto di Massimo Lopez): ma toglie quasi subito il disturbo, per una tragedia familiare che non spoileriamo ma che segna di un tono luttuoso tutta la storia.
Bello il titolo, poetiche le scene iniziali in bianconero delle bambine in grembiule davanti al gelataio, dolce la title song con la melodia di Sergio Cammariere e le parole di Pupi (tra le “cose belle” perdute, l’avatianissimo “tepore del ballo” che era il titolo provvisorio degli “Amici del Bar Margherita”), efficace il volto rugoso del protagonista Lavia e simpatici i baffi rossicci del Marzio giovane (Lodo Guenzi), avatiani tutti i temi toccati: l’innamoramento e la gelosia (gialla e funesta), l’illusione della fama (a Sanremo il duo Leggenda non ci arriverà mai), il triangolo delle bugie, l’autobiografica ombra del padre assente e sempre incombente. Pupi si è spesso paragonato al Pascoli fanciullo che perde il babbo per una cavallina storna, lui invece per colpa di un’automobile, quasi sulla stessa curva di Romagna.
Dentro una trama prevedibile, che non decolla e non emoziona veramente, lontano dai momenti felici delle sue storie appenniniche di ragazzi e ragazze, nella Quattordicesima domenica l’Antico Avati ci consegna il testamento di una vita spesa a inseguire la benedizione della bellezza e la grazia di un sorriso. Ma è il testamento di uno sconfitto (nonostante il recente entusiasmo esternato per la signora presidente del Consiglio) che contempla la fragilità degli esseri umani nel volersi bene veramente. E di essere felici – anche solo un poco, anche solo del poco – nel nostro “tempo ordinario”.
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