La pesca miracolosa

Jafaar è un pescatore palestinese che vive con la moglie Fatima nella striscia di Gaza, sorvegliato a vista fin nella sua casupola dai militari israeliani dei check-point. Il divieto delle autorità di pescare al largo rende le condizioni del suo lavoro insostenibili, ma la sua misera esistenza viene sconvolta la mattina in cui, ritirando la sua rete, vi trova un ispido e grufolante maialino vietnamita, caduto da un cargo durante una tempesta. Atterrito da questo animale impuro per l’islam come per l’ebraismo, che interpreta come una maledizione divina, Jafaar prova a sbarazzarsene, vendendolo a un osservatore tedesco dell’ONU o abbattendolo a colpi di kalashnikov. Tutto invano. Che fare allora di un animale da tutti aborrito, che non può calpestare il suolo palestinese né quello israeliano? Insperabilmente però la maledizione divina sembra rovesciarsi in benedizione per Jafaar, che trova nel maiale e nelle sue spiccate capacità riproduttive un’ottima opportunità di guadagno grazie a Yelena, una giovane colona russa la quale gestisce in un kibbutz un allevamento clandestino di maiali per l’esportazione. Ma quando il commercio è ormai avviato, con reciproca soddisfazione, il segreto sacrilego di Jafaar viene scoperto da un gruppo di islamisti, che lo ingaggiano a forza per un’azione terrorista.

L’esordio cinematografico del giornalista e romanziere franco-uruguaiano Sylvain Estibal è un film sulla difficile convivenza di due popoli, sul rifiuto dell’altro e sui tabù religiosi, che la distribuzione italiana riesce a “tabuizzare” doppiamente, facendo sparire i due termini rivelatori del titolo originale (Le cochon de Gaza) per diverse ragioni sconvenienti (“maiale” e “Gaza”) e propinandoci in cambio un titolo improbabile, che non ci fa capire granché se non che stiamo preparandoci a vedere una commedia. Si tratta scopertamente di un gioco al ribasso, confermato dal ritardo della proposta (il film è del 2011), recuperata per coprire un periodo estivo povero di uscite significative.

Il film si concentra su un individuo preso in un conflitto più grande di lui che, come Fernandel in La vacca e il prigioniero (1959), viene guidato da un animale a trovare una via d’uscita. In questo caso però l’animale assume un preciso valore simbolico: scuro e inquietante, scatena i pregiudizi e l’orrore per tutto ciò che è altro, diverso, ma diventa paradossalmente il vero elemento di legame, la possibilità di riconoscersi tra fronti contrapposti, di un dialogo almeno fugace sulla base comune delle paure e del rifiuto. Il maiale rigettato e disprezzato da tutti diventa così l’impossibile mediatore. Coerentemente con questo rovesciamento che sostiene l’intera narrazione, il film ha il pregio, raro per una commedia giocata sulle gag a ripetizione, di eludere i cliché più ricorrenti: gli islamisti non sono torvi e barbuti, le donne mediorientali non sono sfrontate e vocianti. È un invito a sovvertire le rappresentazioni rigide prendendo esempio proprio dal buon maialino che, a un certo punto del film, se ne va scorrazzando nei panni di un montone per il sacrificio. Un travestimento rivelatore.

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