La caccia all’invisibile

Viviamo tempi di frontiere mobili. In tutti i campi, ma anche 'tra' campi considerati estranei e incomunicanti. Che il confine della conoscenza scientifica debba spostarsi sempre oltre, va da sé; ma che la sbarra tra scienze matematiche e arte possa essere sollevata per mettere in relazione i due ambiti della ricerca umana, sa di rottura di un tabù. Ce lo insegnavano ancora alle elementari: patate e pere non si sommano né si dividono.

Invece è l'esperimento personale di Valerio Jalongo, condotto mentre gira un film sul CERN di Ginevra che tra 2014 e 2016 si appresta a compiere un esperimento mai tentato prima: lanciare due flussi di particelle nell'incredibile circuito di accelerazione realizzato a fine anni '80, per cercare di riprodurre sperimentalmente le condizioni del Big Bang iniziale, e poi attendere i risultati… Jalongo è regista di documentari e fiction autoriali ma viene da studi filosofici e si lascia tentare dall'energia creativa che pulsa nella cittadella europea di ricerca subatomica, e lancia il proprio doppio flusso – arte e scienza, appunto – per sondare il mistero di una natura che, come ha scritto Eraclito nel v secolo a.C., “si nasconde”.

La fisica quantistica sembra confermare lo statuto d'incertezza del visibile (ciò che è, non è come appare) e scende nelle viscere della terra (i condotti sotterranei dell'Acceleratore, icona potente) a sondare l'invisibile e formulare nuove tesi. Per parte sua, anche l'arte indaga il mistero dell'essere umano, e da più di un secolo ha abbandonato la forma esterna del reale per sprofondare nell'astratto e attestare l'impossibilità di codificare la “bellezza”. Dopo un secolo di queste esplorazioni, pare che anch'essa punti ora al subatomico di onde e particelle di energia per dire la verità sull'essere. E per cercare traccia della bellezza, che un tempo si credeva in relazione alla simmetria, a un ordine che fiorisce nel caos, come un fiore che appare disordinato ma rivela una struttura “ingegneristica”. Ora invece artisti e fisici sembrano convergere su di una bellezza che è piuttosto frutto della rottura di simmetrie.

Ma non si va tanto oltre all'estetica postmoderna delle titaniche macchine del superlaboratorio e delle spettacolari collisioni visive elaborate dagli artisti. Il mistero dell'universo resta invisibile agli occhi degli uni – nonostante un esperimento che ha impiegato un'energia pari a quella che alimenta l'intera città di Ginevra, e ha formulato 400 teorie rimaste senza riscontro – e anche degli altri.

Allo spettatore la bellezza torna impressionante dalle immagini del globo terrestre che ruota imperturbabile nello spazio, e da quella natura di alberi, acque, montagne, immerse nella luce, accarezzate dal vento, che restano estranee a questa ricerca di bellezza e di verità, ma toccano il cuore e lo confortano.

“L'essenziale è invisibile agli occhi” sottotitola il film citando Il piccolo principe di Saint-Exupéry. Ma era corollario dell'affermazione “non si vede bene che col cuore”. Alla fine di un film che ci riporta con analogia suggestiva e potente alle caverne graffite di bisonti e mani paleolitiche, forse si trova qui – nel fuori campo – la nuova frontiera, ancora inesplorata.

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