La fotografia li ritrae sorridenti nel più classico dei selfie: il ragazzo più giovane, in primo piano, con il classico pollice alzato per rassicurare, “tutto bene”. Dietro, i due colleghi, anche loro sorridenti, a dominare – dalla sommità di una grande gru – i tetti, i palazzi e le vie di Torino. È un racconto delle quotidianità, non a caso postato sulle pagine dei social network. Semplicemente per condividere un momento della propria giornata di lavoro, in attesa del fine turno o dell’arrivo del fine settimana quando altre “stories” (come viene chiamata la sezione dei profili destinata ad accogliere foto e video senza commenti, “che parlano da sole”) si aggiungeranno per dare sequenza a narrazioni che raccontano chi siamo.
La ricordiamo, quella foto, perché nel dicembre di due anni fa, i tre operai persero la vita a seguito di un tragico infortunio sul lavoro. La gru era crollata facendo precipitare i tre lavoratori e coinvolgendo, nello schianto a terra, anche altre persone. Un incidente terribile che rimane nella nostra memoria proprio per quella istantanea che racconta tante cose: i volti sorridenti e, dunque, le storie personali, il loro lavoro, i rischi che ogni giorno affrontavano seppur con la serenità di chi ne è consapevole, ma conosce anche ciò che si deve fare, come ci si deve comportare.
Chissà se ci ricorderemmo di quella tragedia se non ci fosse stata quella foto. Gli infortuni mortali sul lavoro sono così tanti, troppi, che facciamo fatica a fare memoria: alla fine rimangono i dati, le cifre, le statistiche, materiale freddo e anonimo. Le fotografie invece rimangono, hanno la capacità di produrre emozioni, entrano nella storia di una comunità, diventano – come nel caso dei tre operai sulla gru – patrimonio collettivo, monito per mettere la vita prima di ogni cosa.
Le fotografie, infatti, riescono ad imprimere qualcosa nella nostra memoria ben più dei video (che hanno la forza di portarci nel mezzo della situazione, di farcela vedere, di renderci “presenti”); le foto hanno il merito non solo di essere più immediate (ecco il motivo del successo di Instagram), ma soprattutto di togliere il superfluo e di andare all’essenza, di raccontare, di farci capire quale è il dito e quale la luna.
La storia dell’ultimo secolo è raccontata dal segno degli scatti (prima in bianco e nero, poi a colori) che catturavano un momento e lo hanno fatto diventare universale: tutto dipendeva dalla fortuna (essere sul posto, in quel preciso momento) e dalla bravura del fotografo che “firmava”, con estro e perizia, vere e proprie pagine di giornalismo. Oggi, tutti siamo diventati fotografi. La cronaca è raccontata dagli scatti di chi passa, che casualmente diventa testimone e può diffonderli immediatamente. Non c’è più la ricerca dell’inquadratura, la cura della luce, lo studio del “taglio” più efficace. Spesso non c’è nemmeno rispetto per le vittime (ecco perché i soccorritori sul luogo di un incidente provvedono subito ad alzare un telo di protezione dagli sguardi e dagli obiettivi fotografici). Non c’è più chi valuta e poi sceglie: tutto viene messo immediatamente online e a decidere il successo di una foto è l’algoritmo dei social, che premia o condanna secondo criteri che sono di opportunità e convenienza economica.
Più in generale, i social sono diventati un infinito album fotografico, dove le foto diventano l’espressione più semplice della necessità di raccontarsi, di condividere il proprio quotidiano, da quello più significativo a quello più banale. Anche se non interessa nessuno. Ma l’essenza di un post, sempre più spesso, non è quello di comunicare qualcosa, ma più semplicemente è quello di “esserci”. Sono post dove si raccontano i momenti della giornata, quasi un diario per immagini per soddisfare il bisogno di far parte di una “community” che è cosa ben diversa dal fare parte (e condividere l’“essere parte”) di una comunità. Come quel ragazzo che faceva video anche sul lavoro, per raccontare le ore della notte trascorse sui binari della ferrovia. Registrava con il telefonino, poi il video veniva salvato sulla piattaforma social per essere – con calma – lavorato e pubblicato in rete.
La cosa che sorprende, in tutto questo, è la “normalità” delle cose riprese e poi postate: le cose di tutti i giorni, la routine del lavoro, che di notte diventa ancora più faticoso: il caposquadra, ad esempio, che dice “se dico treno, voi spostatevi”. Quel video non è mai stato postato perché, per quel ragazzo e per quattro suoi compagni di lavoro, la luce del giorno non è mai arrivata. Il video è diventato una terribile testimonianza di quella notte, del treno arrivato mentre stavano lavorando, del fatto che non sono riusciti a spostarsi. È una denuncia sulla responsabilità di questi nuovi cinque morti sul lavoro. I social, dunque, come luogo dove si racconta la “normalità” della vita quotidiana, persino la “normalità” delle tragedie.
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