Il Trentino offre lavoro, ma cresce troppo poco

Riparliamo di produttività, che ristagna da un ventennio (v. Vita Trentina del 14 luglio) con due domande: a) com’è possibile che l’economia trentina sia così poco efficiente, vista la sua reputazione e il massiccio sostegno della Provincia? b) come realizzare gli obiettivi suggeriti dal Rapporto OCSE, quali il rilancio della manifattura e dei settori commerciabili, e l’aumento dell’occupazione femminile, dell’innovazione nelle imprese e dell’istruzione terziaria dei lavoratori?

A porsi la prima domanda, con una certa sorpresa, sono stati vari studiosi, che hanno formulato ipotesi plausibili ma non del tutto convincenti. S’è detto che la nostra imprenditoria sarebbe frenata o assopita da un eccesso di protezioni, ma queste sono oggi vietate sia dal lato delle commesse pubbliche, per le regole sugli appalti, sia dal lato degli incentivi, per i limiti europei agli aiuti di Stato; da un’incentivazione non selettiva, ma è poco realistico che duemila contributi all’anno, negli anni migliori, su quarantamila imprese, spesso con vincoli di capitale e di occupazione, siano l’Eldorado delle imprese sonnolente; da un’eccessiva presenza pubblica, la quale però ha rafforzato il contesto infrastrutturale e formativo, alimento della crescita; da una scarsa qualificazione degli occupati, ma in Trentino il 26,7% dei lavoratori è sovraistruito, contro il 16,3% dell’Alto Adige (ISPAT, 2023); da un diffuso nanismo aziendale, ma il piccolo esercito di diecimila ditte individuali artigiane è una risorsa del sistema, che autogenera e mantiene la propria occupazione. Si dovrebbe forse rivalutare il ruolo del contesto multisettoriale (più lento a reagire ai cicli espansivi) morfologico (favorevole alle piccole attività) e demografico. Dal 2000 al 2022 la popolazione trentina è aumentata, soprattutto per il saldo migratorio (dall’Italia e dall’estero) del 14,5%: il quadruplo della media italiana (3,6%), oltre il triplo dell’UE (4,7%) quasi il doppio del Veneto e dell’area euro (7,6%), della Baviera (7,7%) e più della Lombardia (10,8%) e di Salisburgo (10,4%). Segno di un sistema vivace. Le citate aree estere ci surclassano invece in termini di PIL, ma c’è da chiedersi se sia preferibile che aumenti il PIL o l’occupazione, che è cresciuta in Trentino quanto gli abitanti, comprimendo la disoccupazione.

Sarebbe tuttavia un errore – e siamo alla seconda domanda – sottopesare il rischio di un’economia poco performante. La stasi della produttività rivela un’abbondanza di attività povere e ostacola la crescita dei salari. Impietoso il dato della retribuzione dei lavoratori dipendenti trentini non agricoli: la media annua nel 2022 è di € 21.553,1 al lordo Irpef (ISPAT), inferiore non solo al Nord ma all’intero Paese (€ 22.808,1). Per rimediare, serve un contesto economico stimolante, burocraticamente molto più snello, potenziato da infrastrutture, servizi e incentivi per la circolazione del sapere e del saper fare, in grado di diffondere l’innovazione in una moltitudine di aziende e favorirne la crescita anche per linee esterne (consorzi e reti), all’insegna di una selettività non per settore, ma per livelli qualitativi, ma idoneo pure a sostenere la ricerca e i centri di eccellenza tecnologica. Il ricostituente della produttività, infatti, è la cosiddetta «competitività integrata», che si alimenta di innovazione originata sia dalla produzione, corroborata dalla qualità, sia dalla conoscenza, imbevuta nella ricerca. Una miscela che non fa effetto subito, ma infallibile.

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