Il solito schema di veti blocca il Consiglio europeo

Parlamento Europeo

La nostra premier Giorgia Meloni ha dichiarato di essere soddisfatta dei risultati dell’ultimo Consiglio europeo. Per due ragioni essenzialmente. La prima è che si è discusso, e tutti erano d’accordo, sulla cosiddetta dimensione esterna della politica migratoria dell’UE. In altre parole, di bloccare l’immigrazione dei clandestini sulle coste dei Paesi africani. Come? Con un grande piano di aiuti dell’UE (il Piano Mattei?) a quei Paesi, purché gestiscano i flussi di rifugiati che arrivano alla ricerca dei barconi per l’Europa.

La seconda ragione è che per raggiungere questo obiettivo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha promesso 15 miliardi di Euro nel prossimo bilancio pluriennale dell’Unione. Ma davvero quest’ultimo Consiglio europeo è andato così bene? In realtà è una pia illusione che da questo consesso ci si possano attendere grandi risultati. Solo con la pistola puntata alla testa possono uscire importanti decisioni.

É successo all’indomani della pandemia, con il varo inaspettato di un piano rivoluzionario come il Next Generation EU che ha permesso alla Commissione europea di andare ad indebitarsi sul mercato finanziario internazionale per aiutare l’economia dei 27 (il nostro PNRR). Ma a parte questo mezzo miracolo, il Consiglio europeo è per propria natura un organismo intergovernativo piazzato come un cuneo nel bel mezzo di un sistema decisionale comunitario che con Commissione, Consiglio dei Ministri e Parlamento europeo segue procedure ben precise e per le quali il ricorso al voto a maggioranza qualificata è una garanzia di “governabilità” di tipo sovranazionale.

Ma alla testa di tutte le istituzioni vi è questo benedetto Consiglio dove la regola è invece quella del consenso, parola che nasconde una realtà di unanimità, o se si vuole di diritto di veto, che può bloccare tutto, magari imponendosi anche a decisioni prese in precedenza a maggioranza qualificata. È forse bene ricordare che alcuni anni fa, nel 2016, si era svolta la stessa commedia di oggi: il Consiglio dei Ministri aveva deciso a maggioranza sulla suddivisione in quote obbligatorie di immigrati (secondo un calcolo complicato di popolazione/pil) da distribuire in tutti i Paesi membri.

Peccato che nel successivo Consiglio Europeo le solite Ungheria e Polonia si fossero opposte ad accogliere i migranti sbarcati sulle coste italiane in barba alle decisioni prese una settimana prima. Lo stesso, identico schema si è ripetuto nell’ultimo Consiglio europeo con Polonia e Ungheria che hanno respinto decisioni in materia migratoria prese qualche giorno prima a maggioranza qualificata. Nulla di nuovo sotto il cielo cupo dell’UE. Ed è inutile illudersi che 15 miliardi di Euro promessi da Bruxelles per “esternalizzare” nei Paesi di origine o di transito il controllo delle migrazioni possa davvero funzionare.

Lo ha fatto nel caso della Turchia, ma ha messo nelle mani di Recep Tayyip Erdogan non solo un sacco di soldi (6 miliardi di Euro) ma anche una potentissima arma di ricatto nei confronti dell’EU. Oggi si porta come esempio il tentativo di accordo offerto alla Tunisia dalla delegazione guidata dalla Presidente della Commissione von der Leyen, assieme a Meloni e al premier olandese Mark Rutte, nel quale l’UE ha messo sul piatto quasi un miliardo di Euro di cui 100 milioni per trattenere i migranti. Offerta rifiutata ed in ogni caso inutile poiché negli altri casi, dalla Libia all’Algeria, la concessione di denaro non ha mai cambiato la situazione.

Siamo quindi ancora ai blocchi di partenza, o quasi. Nel frattempo a Lampedusa si ripropone il sovraffollamento degli sbarchi di disperati ed ogni volta ci si chiede dove stia l’Europa. Stupisce quindi che alla nostra opinione pubblica si voglia fare credere che a Bruxelles si sia ormai impressa una svolta strutturale alla politica migratoria dell’UE. Magari piccoli passi avanti, ma tutti da verificare nei fatti. A dimostrare l’inconsistenza dell’accordo si è infatti deciso di affidare al presidente del Consiglio, Charles Michel, una semplice dichiarazione finale non essendo possibile approvare un testo di conclusioni valido per tutti.

Per il resto la riunione di Bruxelles è stata in qualche modo influenzata dai fatti all’interno della Federazione Russa. Ciò non ha fatto altro che rafforzare la convinzione dei 27 nel sostenere ancora l’Ucraina, sia economicamente che militarmente (nell’anno la UE fornirà 200.000 munizioni e ben 2000 missili), ma senza vere novità neppure sul dossier dell’avvio di negoziati di adesione con Kyiv, decisione rimandata alla riunione di dicembre.

Non vi sono state poi altre novità di rilievo. Scontata la decisione di muoversi unitariamente su relazioni costruttive e stabili con la Cina, ma senza soffermarsi nei dettagli sulle azioni di “de-risking” sul commercio di tecnologie sensibili che tanto preoccupano anche gli Stati Uniti. Apertura poi all’America Latina che manca ormai da parecchio tempo sul tavolo dell’UE e che probabilmente ritorna in auge con l’avvio della presidenza semestrale di turno della Spagna.

Insomma un Consiglio europeo forse troppo caricato di aspettative dalla stampa e dalla politica italiana e che di fatto ha rimandato tutti i dossier critici a fine anno. Neppure il caotico dibattito nostrano sull’economia ha trovato riscontri a Bruxelles. Ratifica del Mes, nuovo patto di stabilità, unione bancaria e annunciata decisione di aumento dei tassi di interesse da parte della BCE hanno avuto scarso o nessun eco sul tavolo dei 27. D’altronde questa è la natura del Consiglio europeo: ogni Paese ci legge un po’ quello che gli interessa sul piano nazionale. Ma a far funzionare efficacemente questo organismo ben pochi ci pensano.

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