Il coraggio di Petrunya, che sfida una cultura

Zorica Nusheva in un’inquadratura del film “Dio è donna e si chiama Petrunya”

Arrivato nelle sale italiane alla vigilia di santa Lucia dopo essere passato per i festival di Berlino e Torino e aver ottenuto il premio Lux del Parlamento Europeo, ora è in dvd. Il titolo è di quelli che incuriosiscono e lasciano presentire una cifra autoriale: Dio è donna e si chiama Petrunya, quello italiano, Dio esiste e si chiama Petrunya, l’originale.

Il fatto che la regista sia donna, Teona Strugar Mitevska, anche sceneggiatrice insieme a Elma Tataragic, e donne siano la produttrice, Labina Mitevska, sorella della regista e co-interprete del film, e i direttori di fotografia (Viginie Saint-Martin) e montaggio (Marie-Hélène Dozo), accresce la curiosità.

A questo si aggiunge l’origine del racconto filmico che è la Macedonia, da dove era arrivato – in pieno conflitto etnico – il sorprendente Prima della pioggia di Milcho Manchewski, Leone d’oro a Venezia nel 1994. Di quel film Labina Mitevska era stata interprete; era la ragazza al centro del corto-circuito di violenza tra macedoni ortodossi e islamici albanesi. Là, la vicenda ruotava attorno a un monastero ortodosso sospeso sopra la terra insanguinata dalla barbarie fratricida. Qui ruota attorno al rito nel giorno dell’epifania, quando il pope lancia una croce di legno nelle acque gelate e gli uomini si tuffano per ripescarla; il fortunato godrà di un anno benedetto.

Solo che a pescarla, nel film, è una giovane donna. Petrunya, appunto: 32 anni, una laurea in storia, disoccupata, un corpo sovrabbondante e un carico pesante di frustrazioni avvilenti, in casa e fuori, l’ultima delle quali vissuta appena prima di incappare nella processione religiosa. Come non comprendere l’impulso a gettarsi anche lei nel fiume e, poi, l’attaccamento a quella croce che di diritto dovrebbe essere sua per un anno?

Il gesto, però, viene preso come una provocazione e una profanazione, e Petrunya si ritrova alla centrale di Polizia a rispondere di un reato che non esiste, oppressa dall’autorità civile che si schiera con quella religiosa (che pure non sa di cosa incolparla ma vuole indietro la croce), umiliata da un branco di maschi imbufaliti.

È evidente che la reazione nulla ha a che fare con la fede, ma con il fondo ancestrale della cultura patriarcale e della psiche che l’ha generata. Anche il rito religioso, se aveva un legame con l’Epifania, l’ha smarrito. Il pope vive questo smarrimento ma, invece di fare chiarezza tra fede e cultura, ammutisce e avvalla l’istanza incrociata del potere ecclesiastico e dei nuovi barbari crociati.

In mezzo a questo, Petrunya sta, mentre in lei germoglia qualcosa di nuovo – una consapevolezza e un riconoscimento che le viene dal poliziotto giovane – che le permette di perdonare una madre disistimante (senza questo supporto femminile la cultura maschilista non sta in piedi), e perfino di restituire la croce al pope perché lei ora non ne ha più bisogno, e può andarsene con leggerezza gioiosa nella neve già battuta da altri.

Risolta nell’unità di azione, la semplicità scarna della sceneggiatura acquista profondità nel volto straordinario della protagonista (Zorica Nusheva) che una regia sapiente e visionaria fa entrare in risonanza con lo squallore claustrofobico degli ambienti e rompe con elementi stranianti integrati in modo naturalistico.

Per occhi capaci di tuffarsi nelle acque gelate del paradosso, alla ricerca di una croce che nonostante tutto restituisce il senso e il valore di sé

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