Il caso Margarethe

Ha una ricca filmografia da regista, Margarethe von Trotta, avendo esordito nel 1975 con Il caso Katharina Blum tratto dal romanzo di Heinrich Böll. In quel caso insieme al marito Volker Schlöndorff, ma poi ha proseguito in autonomia inanellando almeno una ventina di opere, tra cui lampeggiano titoli come Rosa L., Annah Arendt, Vision, dedicati a donne che sono state protagoniste della storia come, appunto, la filosofa del pensiero politico che teorizzò la stupidità del male, la socialista rivoluzionaria Rosa Luxemburg e la mistica straordinariamente poliedrica Hildegarde von Bingen che torna di grande attualità nel rivolgimento d’epoca in corso. Ha raccontato, però, anche la resistenza fedele delle mogli, quelle “ariane” sposate a mariti ebrei durante la persecuzione nazista (Rosenstrasse), o il dolore delle donne che ancora subiscono violenza in famiglia, quello delle sorelle divise da una scelta ideologica o anche solo dalla diversità di carattere, e si potrebbe continuare. Una filmografia dedicata ad esplorare l’universo femminile in cerca di emancipazione dai modelli sociali e culturali imperanti, con esiti non sempre apprezzati dalla critica, ma sostanzialmente unici.

L’ultimo in ordine di tempo è stato presentato nelle scorse settimane al festival di Berlino, e ancora una volta nel titolo lampeggia un nome, Ingeborg Bachmann, e un invito accattivante, Reise in die Wüste. Il viaggio nel deserto è quello intrapreso nel 1964 insieme al letterato Adolf Opel, da una delle maggiori poetesse del Novecento, nata a Klagenfurt nel 1926 e morta tragicamente a Roma nel 1973. In quel viaggio Ingeborg rielabora la fine della relazione tormentata con lo scrittore svizzero Max Frisch, per poter ritornare alla vita e all’arte. Alla possibilità, cioè, di coniugare in modo nuovo l’essere artista e l’essere donna, libero dai condizionamenti culturali del passato che impongono comunque subalternità, e libero anche dalle gelosie che inevitabilmente minano il rapporto maschile-femminile, tra due creativi della stessa arte.

Chi era questa donna? Dov’è approdata la sua ricerca? Che cosa ha lasciato dopo di sé? C’è un senso nella morte che l’ha colta a sorpresa nel suo appartamento romano? Speriamo di poterlo scoprire prima o poi sullo schermo, e che questo film non segua la sorte di Vision che dal 2009 ad oggi non è mai stato distribuito in Italia. Infatti, se una mistica tedesca del XII secolo, pur straordinaria come Hildegarde, non fa audience, non è detto lo faccia una poetessa raffinata del secolo scorso.

Il successo sugli schermi internazionali (televisivi, questa volta) sembra andare a un’altra “prima donna”, tale Lidia Poët (1855-1949), prima italiana iscritta all’Ordine degli avvocati, di cui Netflix sta mandando in onda la serie. Ma, guarda caso – è polemica di queste settimane – la figura storica della donna che fu, è stata stravolta: dall’austera valdese che nel 1881 discusse la tesi “Sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni” e che poi avrebbe lavorato alla riforma del diritto penitenziario, combattendo sul campo l’ostracismo del mondo maschile che le vietava la professione di avvocato, a disinvolta detective mangiauomini turpiloquiante. Perché questo a tutt’oggi è il paradigma di emancipazione concesso alla donna dalla cultura di massa. E siamo nel 2023.

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