“Se qualcuno mi chiedesse cosa è importante per la mia scrittura, dovrei rispondere con un auspicio: mistero. Ma a volte la Heimat mi sembra l’opposto, e a volte so di non conoscere nulla meno di lei, e ciò che penso di sapere di essa mi respinge o mi esclude. A volte mi consolo, penso: la Heimat è stato un errore che non ho potuto evitare, ma soprattutto penso: la Heimat è la mia amata sfortuna”.
La Heimat, l’indefinibile luogo dove ci si sente a casa (o dove si è nati? O dove si torna?) è una delle dimensioni che caratterizzano il pensiero e l’opera di Joseph Zoderer, lo scrittore altoatesino morto alcuni giorni fa all’età di 86 anni.
“La Heimat è stato un errore che non ho potuto evitare”, scriveva, sottolineando la tensione che segna ogni cosa si sviluppi sul confine, quello sudtirolese come qualunque altro. Una tensione che si può risolvere nel bisogno di fuga e di cambiamento, ma anche nell’immobilismo e nella chiusura. C’è una paura che attiva e una paura che paralizza.
“Quando pronuncio la parola Heimat”, scrisse Zoderer nel lontano 1995 (“A propos Heimat”) “mi viene spontaneo provare una sorta di irritazione e devo ammettere che ci sono altre cose che mi preoccupano di più, per esempio: Per quanto tempo questo pianeta sarà abitabile? Prima di pensare alla Heimat, mi vengono in mente cose e pensieri che hanno a che fare con la curiosità, la nostalgia e la solitudine: l’amore, la morte e ogni tipo di perché… Ma forse proprio questo ha a che fare con la Heimat, cioè, per quanto casuale possa essere il luogo di nascita, è il luogo del primo incontro con questo pianeta, quindi è anche il luogo più intimo in cui ci si interroga: perché sono qui e cos’è questo luogo in cui mi trovo e perché sono proprio io?”.
Zoderer rilesse questo scritto nel maggio di vent’anni fa, in una sala affollata di una Bolzano che pochi mesi dopo si sarebbe spaccata a causa del referendum identitario sul nome di piazza della Vittoria (o della Pace). Con lui Claudio Magris, che aveva denunciato – in “Microcosmi” – la grettezza dell’establishment politicoculturale tirolese “che, proclamando le incorrotte e schiette virtù della ‘Heimat’ e della sua tradizione, conferisce involontariamente importanza e autenticità a ogni deviazione, anche banale ma comunque liberatoria, da questo modello”.
“So”, continuò Zoderer, “che per molte persone Heimat significa qualcosa come un nido, cioè sicurezza. La pace, l’abitudine, ma soprattutto la familiarità, la familiarità con la lingua, con i costumi, con il carattere della gente e, non da ultimo, con la natura di un certo territorio. Tuttavia in questa idea cresciuta così c’è spesso un difendersi, persino dell’aggressività, contro tutto ciò che è nuovo, contro tutto ciò che è estraneo, anche paura e impotenza di fronte all’eccesso di notizie e informazioni, per cui la familiarità deve essere protetta più che mai”.
“È il problema del riconoscimento e del radicamento”, gli fece eco Magris. “Giustamente Zoderer dice che non è solo Heimat in pericolo, ma la Heimat stessa può essere in qualche modo un pericolo. Io credo possa essere un pericolo non quando la si ama, perché è giusto amare quella che si sente come casa propria, ma quando c’è il problema del radicamento, che diventa una idolatrica fissazione e chiusura”.
Sicurezza e paura. Termini la cui attualità non è affatto svanita. E proprio pensando ai molti che fuggono, che vengono deportati, che devono lasciare la propria terra, soprattutto i bambini, Zoderer ribaltò il discorso: “Spesso penso che dove ho dovuto affrontare più paure, mi sono sentito più a casa lì che altrove. Proprio come se avessi acquisito un maggiore diritto alla Heimat attraverso una maggiore paura”.
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